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Voi siete qui: Biblioteca » “La Russia di Putin” secondo Anna Politkovskaja

22 Marzo 2022 Scritto da Michele Lupo

“La Russia di Putin” secondo Anna Politkovskaja

Nell’alternanza di angoscia, sgomento e cinismo di queste settimane la discussione pubblica dimentica con incredibile leggerezza la storia di Putin – specie quando si esercita nelle analisi geopolitiche degli specialisti (i quali spesso sembrano preferire il risiko alla vita umana). Eppure, per averla raccontata, Anna Politkovskaja ci ha lasciato la pelle. E con lei molti altri (andiamo a memoria, circa una trentina di giornalisti in trent’anni – molti di più quelli finiti in carcere o spariti nel nulla). A lei accadde il 7 ottobre 2006, quattro colpi di pistola, uno in fronte, vicino all’ascensore della sua abitazione.

Forse è il caso di rispolverarne la memoria con l’edizione tascabile de “La Russia di Putin” che Adelphi ha appena mandato in libreria (sempre con la traduzione di Claudia Zonghetti). Lei li definiva “appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia” – una vita in cui la corruzione e il terrore per gli oppositori politici e i cronisti erano già allora velenoso pane quotidiano. Esercito, giustizia, media in larghissima parte asserviti al potere di un uomo e di una cerchia di funzionari che presto costituirono l’apparato di una macchina dispotica e feroce di cui in troppi si accorgono solo ora.

Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, collana gli Adelphi

Su Putin – “Il tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino” – nel libro c’era già il necessario per capirne psicologia e ideologia – escluse le nicchie di evasione metropolitana, la cavalcata (il ritorno) del paese verso uno stato di polizia era già in atto vent’anni fa (non casualmente molte pagine portano il titolo di “storie di provincia”).

Che si trattasse dell’affaire Budanov (colonnello che picchiò, stuprò e infine uccise una ragazza cecena, Elsa Kungaeva, nemmeno 18 anni, a Grozny, e, nonostante la confessione, se la cavò grazie all’immane propaganda a suo favore e alla corruzione del sistema giudiziario) o dei reportage sull’oscena guerra in Cecenia, l’acribia della documentazione, la lucidità del racconto – e la scelta di campo, quella che persino oggi viene tacciata come una posizione “semplicistica”, non vengono mai meno (peraltro, la Cecenia è sistematicamente assente nelle ricostruzioni degli specialisti di cui sopra, che ricordano sì la Crimea o la Georgia ma sempre rovesciando la catena di cause ed effetti per avvisarci delle responsabilità altrui ossia le nostre di occidentali – un peccato originale, pare, nella parte meno invivibile del mondo).

Gli eccidi, Beslan in Ossezia,  il teatro Dubrovka di Mosca, il massacro di Grozny, omicidi di oppositori e giornalisti, le torture, la violenza sistematica all’interno stesso dell’esercito (“gli ufficiali odiano e picchiano a loro discrezione i sottufficiali”), le farse giudiziarie, l’involontaria comicità della macchina mediatica mai scalfivano la popolarità del tiranno, anzi. Forza della propaganda, in un paese che la propaganda è abituato a subirla.

“I crimini di guerra hanno una caratteristica comune: l’ideologia più che la giustizia”, scrive Politkovskaja. E nella pervasività dell’ideologia la cosiddetta Russia profonda – deliri non difformi dall’America profonda di Trump, caro amico del nostro – ha creduto di trovare l’uomo salvifico che le ridava il suo posto glorioso nel mondo: la miseria, un aspetto secondario (“che razza di popolo siamo noi russi?” si domandava la giornalista di Novaïa Gazeta; “I russi condividono in buona parte la xenofobia di stato” era la sua risposta).

Per Politkovskaja, l’FSB (l’organo per la sicurezza interna) non è meno spietato della Čeka, né i suoi crimini hanno meno possibilità di restare impuniti. Anzi, l’azione dei governanti, degli ufficiali, delle polizie russe in genere è sempre guidata da un solo timore: compiacere il capo. Successe a Beslan, dove l’azione dissennata che provocò centinaia di morti rispondeva tutta e solo a questa logica: “perché le sue ire possono equivalere alla fine di una carriera”.

“Questo tipico tenente del KGB sovietico che non è riuscito a diventare colonnello” dispone all’improvviso per fortunate circostanze di un potere enorme – un classico della storia umana nella sua versione peggiore (in Russia una costante – Politkovskaja ricorda la gogoliana vicenda del funzionario frustrato Akakij Akakievič  e dell’agognato cappotto).

“Intorno ai suoi passi aleggia un’aria di rivalsa”, scriveva ancora la giornalista. Putin, uno “che ha dimostrato più volte di non capire il concetto stesso di dibattito”, era già tutto lì, un leader dispotico che non ha bisogno di dare spiegazioni a nessuno, favorito “dalla nostra apatia”. E “la paura è pane per i denti per un čekista, non c’è nulla di meglio per lui dl sentire che la massa che vorrebbe sottomettere trema come una foglia”.

Per chi si fosse stupito del modo in cui Putin ha trattato, telecamere accese, i suoi funzionari, basterebbe leggere Politkovskaja: queste cose, l’orrido “sbirro della polizia segreta” le ha sempre fatte.

Michele Lupo

Anna Politkovskaja
La Russia di Putin
Traduzione di Claudia Zonghetti
Adelphi
Collana gli Adelphi, 639
2022, 4ª ediz., pp. 375
14 €

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