Di Mario Avagliano e Marco Palmieri e delle loro ricerche diffuse sulla storia italiana del ‘900 avevamo già scritto in passato. Ci torniamo ora per segnalare Italiani d’America. La grande emigrazione negli Stati Uniti, uscito ancora con il Mulino e particolarmente utile per ricordare una storia di cui il paese, come spesso gli accade, ha perso memoria.
Eppure pochi altri hanno prodotto nell’era moderna un flusso di migranti come il nostro – paragonato alla popolazione – così massiccio da determinare un’Italia fuori dall’Italia. Lo si poteva leggere già in un editoriale del “Corriere della Sera” del 13 luglio 1903, in cui gli italiani venivano descritti come “il popolo migrante per eccellenza”. Parliamo di decine di milioni.
Ora, avvalendosi di fonti diverse, materiali ufficiali d’archivio, lettere, giornali, memorie dei poveri protagonisti, i due autori descrivono un paesaggio di storie, movimenti e sconvolgimenti antropologici da costringere a ridisegnare l’intera mappa geostorica dall’Unità al compimento di secolo successivo. Perché – e averlo messo in luce è un merito del volume – appare evidente come l’enorme dimensione del fenomeno abbia determinato sommovimenti culturali ed economici senza la conoscenza dei quali la storiografia nazionale moderna uscirebbe monca.
Le aspettative (l’anelito per, o la rassegnazione al) Nuovo Mondo ebbero sulle vicende italiche un impatto tellurico, per le popolazioni coinvolte come per i politici che dovevano governare i flussi, sia quelli americani che per i nostrani. Quattro fasi furono determinanti: il vero inizio (benché alcune migliaia di italiani fossero già presenti nel suolo americano) coincide con gli anni della Sinistra Storica , poi un’accelerazione a cavallo di secolo fino alla guerra; ancora una terza – meno intensa per le reciproche scelte degli americani che strinsero le cinghie e di Mussolini che considerava l’emigrazione un deficit di prestigio e un autogol rispetto alle ambizioni di un fantomatico grande paese (a un certo punto, “un Impero” financo) e infine il dopoguerra a chiudere il cerchio con gli anni Sessanta.
La compagine era variegata ma in netta prevalenza si contavano fasce di popolazione assai malmesse: contadini per lo più, ma non mancavano gli artigiani o gli operai, specie dal nord-est. Dopo l’ovvio fattore-chiave della povertà, dell’assenza di occupazione e mancanza di terra, c’era la prospettiva di trovare un’occupazione meglio retribuita per chi ne avesse una in Italia; molto contribuì la catena migratoria che induceva prima i famigliari poi interi paesi a seguire il viaggio di chi lo aveva intrapreso per primo.
Dopo le prime opposizioni, fallita la politica coloniale e in assenza di una riforma agraria, lo Stato unitario, arretratissimo, inadeguato, e finalmente consapevole delle vere condizioni del paese (si era susseguite varie, decisive inchieste sulle condizioni del Mezzogiorno) si convinse ad allentare le maglie dell’emigrazione e persino a incentivarla.
La partenza, favorita dal motore a vapore che dimezzava prezzi e tempi (ma per procurarsi un biglietto di sola andata spesso occorreva vendere quel che po’ che si possedeva, casa compresa) era un dramma nel dramma, evento costellato da riti, malinconie profonde, truffe ignobili di italiani contro gli italiani – non criminali come alcuni fra gli odierni, famigerati scafisti, ma abbastanza da meritare sincero disprezzo: vendevano biglietti inesistenti, facevano la cresta sui prezzi, subappaltavano operazioni di ogni genere costruendo illeciti business sui drammi di intere famiglie (venne il momento in cui i governi provarono ad arginare il fenomeno con vari dispositivi di legge).
Ma ormai il mito americano, già forte, cresciuto dopo la Grande Guerra, dava una terza possibilità a chi si era trovato di fronte alla scelta fra rubare o morire di fame: milioni di connazionali intrapresero questa terza via (anche il SudAmerica era fonte di attrazione, ma i costi del viaggio erano superiori).
Dopo l’addio lancinante e l’angoscia della traversata che si lasciava alle spalle affetti, figli, mogli, madri, comunità intere, quando si arrivava a New York, la vista della metropoli (della Statua della Libertà) poteva scatenare entusiasmi infantili – lo scriveva un giovane Mario Soldati nel 1929: ma lui era destinato a un’eccellente carriera artistico-giornalistica laddove i più erano disperati in difficoltà non con l’inglese ma con la lingua italiana, ignari di tutto ciò che faceva mondo fuori dal loro paesino – e l’impatto mischiava la speranza con la paura.
Occorreva superare le visite mediche, la ricerca di un lavoro sicuro, il razzismo palpabile e i problemi legati a una problematica integrazione. Pian piano, per molti la scelta si rivelò la sola possibile, e l’idea di far fortuna alla Merica trovava conferme nei fatti, al punto che le rimesse aiutarono sensibilmente l’economia italiana.
Se la letteratura della migrazione (non sempre di conio modesto, vedi il caso del vituperato De Amicis) inevitabilmente soffriva di toni drammatici e patetici, verranno poi gli anni del cinema, che racconteranno le numerose Little Italies in quadri più mossi, violenti anche, dove gli italiani non reciteranno più soltanto il ruolo delle vittime.
La Mano Nera, Cosa Nostra, i conflitti generazionali con i figli e i nipoti che nasceranno e vivranno negli Usa, le connessioni con i trasformazioni italiane tra fascismo e antifascismo: c’è davvero molto in questo libro – per una storia italiana più vera.
Michele Lupo
Mario Avagliano, Marco Palmieri
Italiani d’America
La grande emigrazione negli Stati Uniti
il Mulino
Collana Biblioteca storica
2024, 552 pagine
32 €