In piena pandemia, all’inizio del 2020 , uno dei pianisti più ascoltati al mondo decide – secondo suo stile – di non farsi strozzare dalla chiusura delle attività, concerti in primis, imposti dal Covid-19 e s’inventa, via Twitter, un live streaming dalla propria abitazione. Ecco il perché del titolo House Concert, per un libro-intervista del giornalista tedesco Florian Zinnecker con Igor Levit (tradotto in italiano da Silvia Albesano per il Saggiatore).
Fra i pianisti della sua generazione (nasce a Gor’kij nel 1987, ebreo russo naturalizzato tedesco) da anni Levit è forse il più celebre, ma anche il più chiacchierato, non per faccende di gossip secondo stucchevole vulgata cui, quando si tratta di artisti, veri o presunti, i media non sanno rinunciare, ma perché Levit a un certo punto ha deciso che le sue idee politiche, assai nette peraltro, avessero un’importanza non troppo inferiore alla musica (ricordiamo nel suo percorso, e solo tenendoci al minimo, l’incisone l’integrale delle sonate per pianoforte di Beethoven, la proclamazione come Artist of the Year della rivista Gramophone, 2020, il premio come vincitore del Gilmore Artist Award nel 2018).

Per avere un’idea della benvenuta intemperanza del pianista basti ricordare che proprio la singolare avventura con Twitter si è interrotta quando il social è passato nelle mani di Elon Musk – era stato fino al 7 novembre 2022 il canale (non l’unico) attraverso cui, concerti domestici a parte, Levit diceva la sua al (sul) mondo – prassi che molti non gli hanno perdonato anche per l’enfasi aggressiva che la connotava: verso Putin, verso li razzismo e le politiche migratorie, quelle sorde all’ambiente, la tragedia del trumpismo, la difesa dell’Europa.
Insomma, chiacchierato Levit perché chiacchiera spesso e volentieri – non senza il rischio di passare guai. L’ostilità esibita con coraggio verso il partito di estrema destra tedesco Alternative für Deutschland gli è valsa una sequenza di minacce piuttosto serie.
Criticato anche a sinistra Levit (da quella sinistra ahimè dominante perbenista, ipocrita e gne gne) perché ha il coraggio di dire che una formazione come AFD non dovrebbe avere diritto di parola – e che sentimenti antisemiti allignano anche nella buona borghesia tedesca. La stessa che ha finito di distruggere la Grecia quindici anni fa, ha fatto notare più volte.
L’intervista, assai mossa, con vari salti temporali avanti e indietro, fra aneddotica e testimonianze altrui, è articolata in più fasi e in più luoghi – scelta dell’autore ma anche spia dell’attitudine di Levit a muoversi molto, a fare molte cose insieme, a sfidare la stanchezza di un impegno su più fronti. La musica stessa nella sua concezione è una sfida continua, un invito all’ascoltatore a trovare una sua posizione nel mondo.
“Nella mia testa sono avanti di un bel pezzo rispetto alla mia agenda di concerti. Perché mi sento diverso da tre anni fa, quando l’agenda è stata fissata”. Non ci si aspetta un ego da poco in uno così, difatti nemmeno stupisce che fra i suoi riferimenti (giovanili ma non troppo e fatto salvo che, dice Levit, “Monk è probabilmente il mio più grande eroe del XX secolo accanto a Ferruccio Busoni. Monk per me rappresenta questo: libertà, affrancamento dalla paura, velocità, profondità, dolore”) vi sia Eminem, uno che aveva avuto il coraggio (la supponenza? la pretesa?) di dire “io”, di fare del “più lurido dei pronomi” (Gadda) una risorsa creativa, matrice autobiografica da cui partire verso la definizione dell’arte e del mondo.
“Il pubblico – dice Levit – deve stare in silenzio ad ascoltare come faccio ciò che voglio. Mi pagano per questo. Sembra terribilmente egocentrico. E in questo momento lo è anche. Sono il centro del mondo. In fondo cos’è che faccio, qual è il mio compito? Esco di casa per suscitare emozioni nelle persone. Ciò significa che offro anche qualcosa di me. Espongo la mia interiorità all’esterno. E sono assolutamente convinto che si suoni così come uno è.”
Così anche nelle sue prese di posizione extramusicali (o che fanno della musica uno strumento tramite il quale declinare una visione politica) quello di Levit è l’atteggiamento, ammirevole, del parresiasta: prende pubblicamente la parola, si mette in gioco e in maniera radicale su faccende importanti, non accontentandosi di una canonica carriera pianistica che il suo talento gli garantirebbe con maggiore tranquillità.
Zinnecker, vicedirettore di Die Zeit, lo segue ovunque, cerca gli anfratti più remoti di una personalità che una classica biografia fatta di date, premi, riconoscimenti non può trovare. Levit parla di sé, del suo attivismo politico come della musica con la stessa passione. In occasione di un concerto riflettono insieme sul perché la Waldstein op.53 dell’amato Beethoven rappresenti per lui un apice, specie l’allegro con brio: tanti suoni, tante note sono rari in un singolo movimento.
L’occasione per una sfida per quella sonata gliela offre Pechino, ma il pur temerario Levit non è un ingenuo don Chisciotte, il pianoforte che gli mettono a disposizione non è perfettamente accordato; decide così di passare a Liszt, che pure uno scherzo non è, una cosa mai suonata. L’esperimento riesce.
In Levit non manca mai un atteggiamento volitivo, la libertà creativa di cercare soluzioni ai problemi – non furono in molti fra i musicisti (o lo fecero in maniera assai estemporanea) a reagire alla quarantena del Covid come fece lui, attraverso decine e decine di concerti in streaming, che – confessò all’ottimo Alex Ross – lo avevano tenuto in vita.
L’escursione rapsodica di Zinnecker nel mondo-Levit, avvalendosi anche di varie testimonianze raccolte nel tempo, incrocia a ritroso la sua infanzia (il bambino che una volta approdato in Germania snobba la scuola ma mostra subito di saperci fare con il pianoforte), le tappe della sua formazione, gli incontri importanti (quello con Daniel Barenboim, per esempio, decisivo per rafforzare l’auto-disciplina).
Di più sensibile interesse la lettura in un certo senso politica di alcune questioni musicali. Succede per esempio con la Passacaglia On DSCH di Ronald Stevenson “un pezzo che non conosce quasi nessuno e quasi nessun altro pianista sa suonare: una circumnavigazione del mondo in musica, una piccola storia dell’umanità”. Affrontata anche in una preziosa incisione, va da sé. A una domanda del tipo, “Perché fai questa cosa?”, Igor è capacissimo di rispondere “Perché so farla. Perché sono uno spaccone”. Di genio, però, e generoso.
Michele Lupo
Igor Levit con Florian Zinnecker
House Concert
Conversazioni con il pianista, l’uomo, il cittadino del mondo
Traduzione di Silvia Albesano
il Saggiatore
2023, 248 pagine
26 €