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Voi siete qui: Biblioteca » Simenon scrive “Europa 33” e noi leggiamo “Europa 2021”

7 Febbraio 2021 Scritto da Saul Stucchi

Simenon scrive “Europa 33” e noi leggiamo “Europa 2021”

“L’ALIBI della domenica” di questa settimana è dedicato a un grande libro di Georges Simenon.

Ho raccontato nell’editoriale di fine anno il mio stupore nel constatare che oltre un quarto dei libri letti nel 2020 (27 su 103) sono stati scritti da Georges Simenon. Da “Tre camere a Manhattan”, regalatomi nel 1998 dall’allora fidanzata che qualche anno dopo sarebbe diventata mia moglie, fino a “La casa dei Krull”, mentre “Turista da banane” era il tema di un editoriale ai tempi del lockdown.

In quello del 6 dicembre, intitolato “2020, 1933, 1914… Gli anni dei sentieri che si biforcano”, anticipavo che “nei prossimi giorni” avrei scritto di “Europa 33”. I fatti della vita mi hanno portato a rimandare di settimana in settimana, ma eccoci qui, finalmente.

Simenon, Europa 33, Adelphi

Dicevo allora che la lettura di questo intenso libro coincideva per me con l’ascolto del podcast della trasmissione “Alle otto della sera” dedicata all’anno 1914, condotta da Luciano Canfora. Menzionavo la sorpresa nello scorgere similitudini tra i due anni – 1914 e 1933 – e il senso di sgomento che si prova nel confrontare entrambi con il periodo che stiamo vivendo. Qui non posso che confermare la sorpresa e lo sgomento.

Il reportage e i romanzi

Molti libri mi sono venuti in mente leggendo “Europa 33” e altri me ne vengono in mente ora, con le letture di questo nuovo anno. Ho pensato, per esempio, che leggere il Simenon del 1933 è come leggere il Paolo Rumiz di “Trans Europe Express” del 2008: entrambi servono per capire l’Europa di oggi, scossa da populismo, nazionalismo revanscista e patriottismo esacerbato.

Chi ama Simenon (ovvero chi legge Simenon) ritroverà in questa raccolta di reportage stilemi, figure (come i portieri d’albergo, personaggi che compaiono spesso nei casi di Maigret) e molto materiale impiegato anche nei romanzi contemporanei e di poco successivi.

Ne “I clienti di Avrenos”, del 1934, è descritta la stessa atmosfera di “Nostalgia slava a Pera”, settimo capitolo del reportage “Popoli che hanno fame”. L’odissea per lasciare l’Unione Sovietica (“una delle peggiori giornate della mia vita”) è la stessa vissuta da Adil bey, il console turco a Batum protagonista de “Le finestre di fronte”, del 1933. Simenon compiva allora 30 anni.

Intanto, quasi contemporaneamente, attraversava l’Europa dall’Olanda a Costantinopoli Patrick Leigh Fermor, di una decina d’anni più giovane. Il racconto di quell’epico viaggio sarebbe stato pubblicato oltre quarant’anni dopo, con il titolo di “Tempo di regali” (Adelphi). Per Simenon, invece, quello fu un tempo di riflessioni.

Rovesciamento di prospettiva

L’apertura di “Europa 33” è programmatica: “Io sono partito con uno scopo più modesto, quello di vedere il volto dell’Europa di oggi”. Quasi trecento pagine dopo si chiede “Sono riuscito, nonostante la deformazione professionale, a non fare letteratura?”. Possiamo considerarla una domanda retorica con risposta contemporaneamente affermativa e negativa (se riconosciamo – come dovremmo – il valore di letteratura al grande giornalismo).

Simenon parte per smontare e smentire i luoghi comuni, per stracciare le cartoline illustrate che sintetizzano – esasperandole e falsandole – le idee che un popolo ha di un altro. Comincia subito, ribaltando l’atlante per mostrare che l’Europa comincia dagli Urali e non da Parigi, e poi analizzando il rapporto di amore e odio tra la Francia e il Belgio.

Gli appunti che ho preso durante la lettura sono un lungo elenco di annotazioni con la dicitura “molto importante”. Ve le risparmio per evitarmi la fatica di trascriverle ma soprattutto per non rovinarvi il piacere della scoperta.

Ne menzionerò soltanto alcune, come l’efficace metafora della “corsa campestre” che vede impegnati i paesi europei (mai trascurare “quelli rimasti indietro”) e “l’orrore per la chimica” che mi fa pensare a “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di Benjamín Labatut, appena uscito anch’esso da Adelphi (nei prossimi giorni, prometto!, vi spiegherò perché).

Un continente malato

Nel 1933 l’Europa era malata e Simenon viene mandato in giro per il Vecchio Continente a prendere il polso alle varie nazioni. Assume il compito con professionalità e impegno, ma ciò non significa che non trovi il tempo di apprezzare quanto di bello gli capiti sotto gli occhi, a partire dalle “commesse appetitose come pasticcini” della natia Vallonia che si meritano anche una foto.

Peccato che le immagini riprodotte nel libro, come quelle che illustrano “Il Mediterraneo in barca”, pubblicato nella stessa collana, siano prive di didascalie. Ci si può rifare sfogliando “Fotografie di viaggio”, edito da Archinto con testi di Freddy Bonmariage.

Viaggiando, lo scrittore avverte presto un senso di pericolo. In particolare quando attraversa la Polonia, “il più grande dei piccoli paesi”, con quasi tutte le frontiere “calde”.

E se ci pensi quando sei in un noto ristorante di Varsavia, con in sottofondo una musica languida, mentre giochi di luce accentuano la bellezza di donne che sanno di essere belle, e giovani ufficiali fanno il baciamano come altrove non si usa più, e la notte passa voluttuosamente senza che a nessuno venga sonno, be’, allora ti viene una certa fifa, devo ammetterlo. La stessa fifa che ti viene quando vedi un bambino giocare con i fiammiferi. Ebbene, da nord a sud, dal Baltico al Mar Nero e al Mediterraneo, tutti se ne vanno in giro innocentemente con le mani piene di fiammiferi”.

Di lì a pochi anni la premonizione si sarebbe avverata.

Dal bordello a Trockij

Simenon non si tira mai indietro, che debba mettere piede in una casa di tolleranza nella campagna di Vilnius o discendere negli inferi di un lazzaretto a Varsavia, o ancora intervistare un Trockij turbato dalla lettura di “Viaggio al termine della notte” di Céline nel suo esilio turco sull’isola di Prinkipo (uno scrittore di talento dovrebbe misurarsi con l’idea d’immaginare la contro-intervista di Trockij a Simenon…).

È difficile che Simenon si lasci impressionare: ne ha viste di cose e tante ne ha sperimentate in prima persona, come la fame e la guerra per le strade. Eppure ci sono momenti in cui vacilla, colpito dalla scena che ha davanti agli occhi.

Il capitolo “Cartoline illustrate” è una lezione di giornalismo valida ancora oggi. Sfogliando i pallidi nipoti odierni dei quotidiani di allora non possiamo che notare la stessa contrapposizione tra reportage fatti consumando la suola delle scarpe ed editoriali scritti alla scrivania, spesso senza sapere di cosa si stia parlando.

Simenon constata che quella della diplomazia era (è) ormai un’Europa che non corrisponde più alla realtà. Interroga e chiacchiera. Particolarmente intense le pagine in cui racconta la “sfida professionale” con una giornalista americana di origini russe. (Ho cercato di individuarne l’identità, ma non ci sono riuscito). Osserva ed esce dai binari.

E se l’alter ego di Christopher Isherwood dichiara “Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto” (“Addio a Berlino”, ancora Adelphi), Simenon scrive “ebbene, in Russia, io sono l’operatore. Mi limito a registrare delle immagini. Ed è per questo che ci tengo a inserirmi sempre nello scenario” (tanto da comparire anche in alcune fotografie).

Frontiere aperte o chiuse?

Non è compito suo avanzare proposte né tantomeno soluzioni a problemi come l’immigrazione e la gestione delle frontiere. “Per entrare in un paese non basta più un passaporto, un visto. Servono soldi. Bisogna dimostrare di non essere in cerca di lavoro” (pag. 194).

“Un tempo le entraîneuse erano quasi tutte ungheresi. Lasciavano il loro paese in gruppo e le si trovava dovunque, al Cairo, ad Atene, a Sofia, a Belgrado, sempre belle, sempre vestite in modo splendido. Si chiudono le frontiere. E dall’oggi al domani bisogna trovare della ballerine turche. Fino a qualche anno fa uscivano solo velate e adesso eccole che ballano in abiti succinti e prendono posto al tavolo dei clienti per farsi offrire champagne!” (pag. 213).

Lo stesso champagne che scorre a fiumi nell’Ankara ancora in costruzione, “un villaggio in mezzo al nulla”, dove manca quasi tutto ma “si mangiano aragoste alla Thermidor. E si ungono ruote. E ci si agita. E si intriga”. Intanto la Grecia paga le torpediniere all’Italia con il tabacco e la Romania con il petrolio…

“Ora tutti vogliono fabbricare i loro cannoni e le loro macchine da cucire. Pretendono di educarsi da soli e parlano di rinascita nazionale. Il mondo ne è pieno, di rinascite nazionali che cozzano tra loro con un frastuono più o meno minaccioso”.

C’era di che preoccuparsi nell’Europa del 1933. E c’è ancora.

Saul Stucchi

Georges Simenon
Europa 33
Traduzione di Federica e Lorenza Di Lella
Con una nota di Matteo Codignola
Piccola Biblioteca Adelphi
2020, pagine 377, 67 illustrazioni b/n
18 €


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