Un importante progetto dell’editore Castelvecchi, la pubblicazione integrale dell’opera di Rachel Bespaloff, ci consente di conoscere il pensiero di una filosofa spesso accostata ad altre due pensatrici ebree del secolo scorso, Simone Weil e Hannah Arendt, ma da noi assai meno nota. L’impresa editoriale consta di quattro volumi, contiene saggi, apparati biografici e bibliografici (a cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò), testimonianze e un cospicuo epistolario.
Il primo libro (più di 600 pagine), uscito alla fine dello scorso anno, è costituito dagli scritti francesi e inizia con Sur Heidegger (Lettre à M. Daniel Halévy), primo suo studio significativo (la più parte delle lettere è compresa nel terzo volume ma si è fatta un’eccezione per questo testo per via del carattere assai formale, analitico del lavoro, datato 1933).
Nata casualmente nel 1895 in Bulgaria da genitori ucraini, Bespaloff cresce a Ginevra in una famiglia di intellettuali; ivi compie studi musicali che la condurranno a insegnare all’Opéra di Parigi. Sulla scia della madre scopre tuttavia una vocazione al pensiero filosofico che si articolerà pian piano per frammenti speculativi sul pensiero (e l’arte) di alcuni grandi contemporanei. Figura di straordinaria sensibilità, dalla vita interiore non poco tormentata, terminata forse non casualmente con un suicidio in terra d’America (paese, gli USA, mai amati) dopo essere sopravvissuta allo sterminio ma non alla morte del marito, Bespaloff, si diceva, per lo più pubblicò riflessioni concernenti autori, scrittori e filosofi (del Novecento per lo più ma non solo), sempre dimostrando acutezza e talento di scrittrice.

L’incontro con i testi e anche i dialoghi diretti con alcune personalità fondamentali dell’epoca (Šestov per esempio o Jean Wahl) costituiscono più che un percorso di avvicinamento critico, storico-filologico (sebbene nella Lettera su Heidegger a risaltare sia proprio l’acribia filologica sui dettagli semantici ed etimologici della terminologia heideggeriana), l’occasione per rianimare i testi stessi e con essi la possibile fecondità di un confronto da cui far emergere questioni capitali e sondare dal vivo le proprie stesse idee.
A partire si diceva da Heidegger, dove fra la meticolosa messa a fuoco del linguaggio – dunque del senso di Essere e tempo – emergono come mere digressioni dilemmatiche intuizioni rivelatrici: non sarà la musica la manifestazione più evidente dell’Erschlossenheit, di quell’Apertura «dove l’Essere è già scoperto, accessibile, visibile»? si domanda Bespaloff: «la musica ci mette in ascolto e riporta l’esistenza alla sua nudità».
E forse lì giace la possibilità per quello che Bespaloff chiamerà l’eternità nell’istante (da contrapporsi, la musica così intesa, al “rumore” dei suoni che governa e opprime il regno heideggeriano del “si”, dell’anonimo, dell’inautentico – pensare cos’avrebbe scritto oggi…). Decisivo per la questione, centrale, dell’istante, di «quell’ambiguità nella quale il tempo e l’eternità si toccano», cifra della pura possibilità, più che Heidegger però appare Kierkegaard e il pensiero tragico tout court.
Se sul tema della libertà, Heidegger, nonostante «la bellezza del suo linguaggio filosofico» non la convince sino in fondo, nella storica contrapposizione fra Camus e Sartre non può non stare dalla parte del primo. La dimensione del tragico, dopo le incursioni in varie riviste, torna ancora prepotentemente nel primo volume a stampa, Cheminements et carrefours, in cui compaiono fra altri Julien Green, Malraux, Gabriel Marcel, Nietzsche.
È proprio il tragico a tenerla a distanza da Montaigne, che pure sarà al centro del suo incompiuto (non compreso nel primo volume di questa edizione) L’istante e la libertà. Se il presente vissuto nella sua pienezza («l’istante perfetto è attenzione e godimento della dimensione sensoriale e materiale del proprio essere») è un insegnamento del pensatore francese cui Bespaloff tornerà di continuo, resta che: «Montaigne non risponde a tutti i nostri problemi. Non è disceso agli inferi. Insegna modestamente a non trasformare la vita in un inferno».
E poi c’è la Bespaloff che riflette sulla questione ebraica e sui greci. Come ricorda Monique Jutrin nella Prefazione, a differenza di altri, per Bespaloff il legame con il popolo ebraico è indissolubile, e ingloba una convinta adesione al sionismo. Negli anni orridi dell’ascesa hitleriana, a differenza di troppi scrittori – anche di genio – che ci sono cascati, non senza compiacimento e imperdonabili responsabilità individuali, rifiuta qualsiasi mistica fascista, resta ai fatti e scrive: «Ogni ingiustizia è una forma di stupidità, e alla fine sarà pagata».
Quanto ai greci, tutto ha inizio quando per la figlia venne il momento di incrociare a scuola i poemi omerici, Bespaloff colse l’occasione per studiare più a fondo l’Iliade e in pieno conflitto mondiale ragionare sui grandi temi tragici che attraverso quell’epos fondavano la cultura occidentale – guerra compresa. E mentre lo fa, mentre ne indaga gli eroi-archetipi e accosta la resistenza antinazista a quella troiana scopre che qualcuno lo ha fatto da poco, prima di lei – la Weil.
Ne scrive a Jean Grenier dicendosi «profondamente commossa. Esprimo una sola riserva: la forza in Omero non appare soltanto sotto un aspetto negativo. Omero la denuncia ma pure la divinizza, non dimentichiamolo. Per Omero, la forza è bella (altrettanto bella) e ha un carattere ambiguo, contraddittorio».
Molti hanno sottolineato le affinità fra le biografie delle due pensatrici e Bespaloff stessa nota che alcuni passaggi potrebbe averli scritti lei, teme persino che possano accusarla di plagio. In entrambe l’epos omerico è ricondotto alle sue ragioni originarie: il bene, il male, la forza, il destino, il dolore, le domande essenziali sul senso e il loro rinvio inevitabile a un piano metafisico. In entrambe, com’era stato per Nietzsche, la Grecia è un punto di partenza, ma l’imperio di una forza che si abbatte sugli eroi e li sottopone a prove terribili trova un contraltare nella figura di Ettore, il vero eroe della Bespaloff.
«Ettore ha sofferto tutto, e ha perduto tutto tranne se stesso. Nella schiera alquanto mediocre dei figli di Priamo, lui solo è principe fatto per regnare. Né superuomo, né semidio, né simile agli dèi, ma uomo, e principe tra gli uomini. Dotato di una nobiltà priva di affettazione che non ammette superbia nel rispetto di sé, né umiltà nel rispetto degli dèi. Ettore ha molto da perdere perché appagato e sempre al di sopra di ciò che lo appaga a causa del suo anelito a sfidare il destino».
Michele Lupo
Rachel Bespaloff
L’eternità nell’istante
Opere. Gli anni francesi (1932-1942)
A cura di Cristina Guarnieri e Laura Sanò
Castelvecchi
Collana I timoni
2022, 672 pagine
30 €