Fra le opere di Ludwig Wittgenstein che tali propriamente non erano – avendo pubblicato solo il “Tractatus logico-philosophicus”, libro peraltro assai breve – molto hanno incuriosito gli studiosi i “Diari segreti”, resoconto autobiografico dei tre anni trascorsi dal filosofo come volontario nella Grande Guerra. Possiamo rileggerli oggi in italiano con l’introduzione di Luigi Perissinotto e la traduzione di Fabrizio Funtò per l’editore Meltemi.

Più di altri filosofi del Novecento, e a prescindere dalle considerazioni di valore, è indubbio che le caratteristiche dell’uomo si prestassero a un particolare interesse, fiduciosi in molti che ciò aiutasse a comprenderne il pensiero filosofico (affaire sempre discutibile ma aperto). Il genio – tale lo considerava Russell cui invece Wittgenstein doveva molto del suo lavoro – è un uomo tormentatissimo, e con questo siamo in pieno cliché; per giunta, nello specifico se genio fu si trattò di un tipo di quelli che chiudono recinti più che aprire mondi: nell’assertività senz’appello della prima proposizione del “Tractatus” (“Il mondo è tutto ciò che accade”), si adombrano limiti precisi, che sono quelli del linguaggio. “Ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso”.
Alla prova del fuoco
Ora, questi “Diari segreti” che vanno dall’agosto del 1914 allo stesso mese del 1916 un certo approccio ossessivo, maniacale del filosofo alla vita lo confermano. Vero, era la guerra (partito volontario con le truppe austriache – perché? pur potendolo evitare, è un’altra delle domande ricorrenti), ma l’esperienza biografica successiva per molti aspetti non avrebbe registrato grandi e definitivi scarti da una tendenza allo scoraggiamento, alla prostrazione, diciamo pure alla depressione.
Wittgenstein era convinto che quell’esperienza fosse “una prova del fuoco per il carattere”. E lo fu, perché dalla mescolanza di abrupti entusiasmi e crolli subitanei dei primi mesi passò presto a un umor nero costante, esacerbato (e a una stesura sempre più epigrammatica), spesso procurato non dalle fatiche degli impegni specifici ma dalla mera convivenza con i soldati, ufficiali (un po’ meno spesso) o semplici commilitoni che fossero ma terribilmente volgari, stupidi, cialtroni. “Dunque non è vero che una grande causa comune nobiliti necessariamente l’uomo”, scrive.
Ovunque venisse spostato, gli risultavano immancabilmente insopportabili. Ne soffriva (“la cattiveria degli uomini ogni volta provoca una ferita”) non solo per i fatti in sé, ma perché, autentico heautontimorumenos, si rimproverava di non avere la forza di tollerarla. L’uomo che legge con passione le riflessioni sui “Vangeli” di Tolstoj e vorrebbe essere buono (e che, ricco di famiglia, donerà in effetti i suoi averi, in parte ad artisti che stimava, da R.M. Rilke, a George Trakl, ad Adolf Loos, e condurrà la vita più spartana del mondo), fatica tantissimo, si arrovella, vorrebbe staccarsi al contempo dal mondo e finisce col pensare al suicidio – “La vita è una tortura”.
Le pulsioni di Ludwig
Wittgenstein mette in gioco la tempra morale che rimprovera a se stesso di non avere, e a volte sembra aspirare a una serafica passività, un piccolo Buddha, ma non gli riesce; “Mi consumo inutilmente”, confessa. Non è una passività accidiosa, il soldato fa il suo dovere, si tratti di pelare patate o aiutare con l’artiglieria. Questo genere di annotazioni è frequente, lo stesso uomo, monacale, che simultaneamente lavora a una filosofia esatta cerca un impossibile rigore al fronte, laddove la vita e la morte si confondono più che mai.
Non ha paura di essere ucciso, scrive ancora, “ma di non fare in fondo il mio dovere”. Nomina Dio più volte, lo invoca persino; l’essere umano “non dovrebbe dipendere dal fato”. Né lui vorrebbe dipendere dagli altri. E dalla propria sensualità: si masturba spessissimo, ma non ne sembra felice (“così non si può andare avanti”).
Se è evidente il bisogno del controllo, nell’inclinazione psicologica dell’uomo, e non sai quanto utile a comprenderne il dettato filosofico, ciò che rileva maggiormente è altro. Non c’è quasi annotazione che non sia accompagnata dalla meticolosa registrazione di ciò che va facendo sulla facciata destra dei suoi taccuini: “oggi ho lavorato”, oppure “oggi non ho lavorato” (e minimissime varianti). I “Diari segreti” furono infatti scritti (crittografati, e decifrati a dir il vero senza eccessive difficoltà) negli stessi quaderni che costituivano l’officina che aprirà al “Tractatus”. Wittgenstein vi allude di continuo, “non passa giorno che io non pensi almeno una volta alla logica”.
E non passava giorno che non lo ricordasse. Sempre alla caccia del “problema principale”. Che tutto fosse negli stessi fogli, e simultaneamente, l’amarezza quotidiana di un uomo difficile e il lavoro disciplinatissimo di un filosofo fra i decisivi del Novecento, dà a queste pagine un fascino peculiare – come può accadere, quando è in gioco la parte oscura della luna.
Michele Lupo
Ludwig Wittgenstein
Diari segreti
A cura di Fabrizio Funtò
Prefazione di Luigi Perissinotto
Meltemi
2021, 174 pagine
10 €