Dalla fine degli Anni Novanta, ho preso a frequentare assiduamente, per ragioni familiari, le cosiddette Terre del Giarolo, ossia le zone acclivi all’omonima montagna dell’Appennino piemontese. Le frequento in tutte le opportunità che esse mi offrono: dalle lunghe passeggiate per i sentieri (fino alle vette – del Giarolo, dell’Ebro, del Chiappo – che, nei giorni limpidi, consentono la vista del mare) alle molteplici ricchezze gastronomiche.
Una dozzina di anni fa, nel mio lavoro di funzionario presso la Direzione Ambiente della Provincia di Alessandria, avevo avuto modo di coordinare la “confezione” del bel volume “L’Appennino piemontese – Percorsi, paesaggi, Natura e storia del tratto piemontese di Appennino”, da poco ripubblicato presso l’Editore Tarka.
Fu, per me, una grossa soddisfazione, soprattutto perché eravamo riusciti a ottenere gratuitamente ognuna delle molte collaborazioni: a cominciare dall’importante testo introduttivo di Franco Tassi, per 32 anni Direttore del Parco Nazionale d’Abruzzo. Evidentemente, la valorizzazione dei nostri monti era un obiettivo prioritario, per i partecipanti all’iniziativa.
Tassi, nel suo articolato intervento della primavera 2009, aveva posto alcuni paletti, effettuato alcune analisi e avanzato alcune proposte: “In quest’angolo di Appennino, tra valli e boschi che pochi conoscono, potrebbe forse ripetersi il ‘miracolo’ del ritrovato equilibrio tra uomo e natura. Rispettando il passato, ma godendo i frutti del presente e aprendo nuove speranze al futuro dei giovani e dell’ambiente. Far rifiorire un territorio, anziché trasformarlo in una goffa imitazione delle periferie urbane, è davvero possibile. Quando si capirà che queste due realtà diverse, città e campagna, possono convivere, e che rappresentano mondi tra loro non opposti, ma complementari, essenziali per la nostra vita, allora potrebbe ripetersi il ‘miracolo’ già accaduto altrove. (…) Non lottizzazioni, ma restauri; non grandi alberghi, ma agriturismi; non megaimpianti, ma itinerari; non condomini, ma artigianato; non frutta congelata e formaggio industriale, ma tipici prodotti locali. Questi sono i connotati del vero ecoturismo responsabile, che si sposa con un ecosviluppo sostenibile, durevole e compatibile…”.
L’Italia in verticale
Proprio nel solco di tali parole, è da poco uscito in libreria, coi tipi del mai abbastanza lodato – per la qualità etica, letteraria e “materiale” dei suoi volumi – editore Donzelli, un denso libriccino, destinato a inaugurare una serie di testi realizzati in collaborazione con la Fondazione Appennino: “Civiltà Appennino – L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni”, degli ottimi scrittori Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo.
Nella loro presentazione, datata gennaio 2020, Piero e Gianni Lacorazza, in rappresentanza della Fondazione, sembrano proprio richiamarsi all’auspicio dello storico Direttore del Parco d’Abruzzo: “Il rivolgere lo sguardo alle aree interne è dunque la scelta di sostenibilità che passa sicuramente per l’agricoltura di qualità e la nuova cultura del cibo, che rappresentano il terreno di maggiore sfida per l’incontro tra uomo e tecnologia, tra aree vuote e piene; per la conferma di una consapevolezza di ritorno alla slow life, o alla sweet life… (…) Il racconto di questa traiettoria permette di lanciare una sfida rivolta al futuro e che ha nella sua agenda non soltanto lo scopo di ‘riconoscersi’, ma anche quello di prefigurare per l’Appennino un progetto politico, economico e imprenditoriale in grado di riqualificare un’area geografica ritenuta marginale e farne una sorta di laboratorio dell’utopia verticale”.
Raffaele Nigro avanza un’ipotesi suggestiva e, a mio avviso, fondata: superando il luogo comune di un’Italia divisa orizzontalmente in tre – Nord, Centro e Sud -, il nostro Paese andrebbe invece letto come una struttura verticale: a sinistra una cultura tirrenica, a destra una adriatica e in mezzo il grande Appennino, “ascissa terrosa e floristica che lega l’Europa e il Mediterraneo”.
Medio Occidente
In effetti, percorrendo l’intera catena montuosa, come fece Paolo Rumiz per elaborare “La leggenda dei monti naviganti”, si riscontrano di continuo coincidenze e ritorni, non soltanto nel paesaggio e nella toponomastica, ma anche nell’edilizia, nelle attività lavorative, negli stili di vita. Nigro questa comunanza la osserva “dalle Langhe agli Iblei”. Propone quindi uno scambio fecondo di tradizioni etniche, letterarie, musicali e gastronomiche tra le varie popolazioni appenniniche, disseminate lungo tutto lo Stivale.
Giuseppe Lupo riprende l’idea di centralità dell’Appennino, definendolo – così come esiste un Medio Oriente… – “Medio Occidente”, ossia “uno spartiacque di molte geografie, il punto di equilibrio tra New York e Gerusalemme, Istambul e Gibilterra, Oslo e Tangeri… (…) un luogo di addizioni, una terra dove le nozioni di Storia e di Tempo si declinano in forma di dialogo e scontro, di concretezza e di lentezza, di sacralità e di etica”.
“Nascere nelle zone dell’Italia interna, a metà strada tra il mare Adriatico e il mar Tirreno, significa portarsi dentro quel tormento che Ignazio Silone chiamava ‘mal d’Appennino’: un disturbo, un intralcio, un tarlo che si insinua sotto la pelle di chi lascia i paesi dove ha avuto origine il suo sangue e poi però, nel momento stesso in cui si allontana da essi, sente l’urgenza di ritornare sui propri passi, rientrare tra i muri della propria casa”, scrive ancora Lupo, ben centrando l’intima contraddizione, il dolore interno di ogni montanaro appenninico inurbato (e io ne conosco parecchi).
Alla fine, gli autori propongono un “Manifesto di una scrittura appenninica”, applicabile all’intero territorio nazionale:
“L’Appennino è il luogo della fuga e della precarietà, dello svuotamento dei borghi. Salire e scendere, affrontare la fatica della scalata, dalla valle alla cima, ora per valli ora per montagne. Salendo si guarda verso l’alto. L’Appennino è il luogo della riflessione, della ricerca e del dialogo con il metafisico e con i temi profondi dell’esistenza. La linea che esprime la civiltà dell’Appennino è quella tonda del colmo delle colline e delle valli o il segmento che disegna le cime, i tetti cuspidati, in un susseguirsi di tratti e di elementi fratti.
La poesia che si esprime è fitta di cavità, di valli, di sprofondi, di penombre. La poesia che le si accosta è quella del manierismo, il buio leonardesco, il buio caravaggesco. Le architetture appenniniche orbitano intorno a un castello o a un campanile sistemato in cima a un’altura, arroccato fra tetti ed embrici. Le creature dell’Appennino sono animali solitari, come le volpi, il lupo, il falco, i nibbi. Solo le pecore e le capre popolano in greggi le zone montane. Le culture arboree disegnano le fiancate dei monti, faggi, castagni, pini, aceri. Le siepi di rovi e di biancospini delimitano le vigne. I vigneti si adagiano a spalliera e a ceppaia, non a tendoni come in pianura. Non il frastuono del borgo o della metropoli, ma il fruscio. Le nebbie sono le vere abitatrici degli anfratti.
L’Appennino è il luogo dove perdura l’agricoltura ed è assente l’industria. L’Appennino è luogo dei terremoti e delle aree smottanti. L’Appennino è contemplazione e ricerca, memoria e utopia, fuga dai miti e rifondazione di altri miti. L’Appennino non è più oriente e non è ancora occidente, eppure li contiene entrambi. Sull’Appennino piovono le lingue dei popoli che lo abitano e le parole sono come acqua che filtra nell’humus e si sedimenta a strati. L’Appennino è il luogo dove le fole del vento portano le spore dei sogni”.
Attendiamo, con estremo interesse, gli altri volumi della collana…
Marco Grassano
Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo
Civiltà Appennino
L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni
A cura della Fondazione Appennino
Presentazione di Piero Lacorazza e Gianni Lacorazza
Donzelli, collana Saggine
2020, pagine XVI-144
18 €