Martedì scorso, 12 agosto 2025, ero al Cimitero Futa Pass sull’Appennino ad assistere allo spettacolo di ArchivioZeta Il processo. Primo dibattimento tratto dal romanzo – non finito, ma in qualche modo compiuto – di Franz Kafka, a un secolo dalla pubblicazione del libro.
Ho ricordato nella recensione pubblicata ieri qui su ALIBI che la compagnia ha rappresentato, nelle tre estati precedenti, la Montagna incantata di Thomas Mann (anche in questo caso in occasione del centenario della pubblicazione, avvenuta nel 1924). Non è stato un caso che abbia scelto la data del 12 agosto, a pochi giorni dal rientro da un’intensa vacanza in Grecia, spesa in un viaggio le cui tappe ho raccontato sempre qui.
Il 12 agosto, infatti, ricorreva il settantesimo anniversario della morte dello scrittore tedesco, avvenuta all’età di ottant’anni a Kilchberg, nei pressi di Zurigo, doveva aveva deciso di vivere al rientro in Europa. Lì, nel piccolo cimitero, è sepolto insieme alla moglie Katia e ad alcuni dei loro figli.

L’anno scorso la voce di Mann è risuonata tra gli Appennini alla fine del trittico con cui ArchivioZeta ha affrontato Zauberberg. Anche allora per me l’appuntamento con lo spettacolo ha coinciso con il 12 agosto, ricorrenza anche dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (1944).
Ogni anno, girando insieme agli attori tra i luoghi del Cimitero Militare Germanico, è inevitabile pensare alla morte e dunque alla vita e al suo significato, alla guerra e alla pace, al male e al bene, alla vendetta e al perdono.
Questa volta, prima di partire, mi sono riletto uno dei miei passi preferiti di Giuseppe in Egitto, terzo capitolo della tetralogia di Mann Giuseppe e i suoi fratelli. Siamo nel sesto capitolo, significativamente intitolato La sacra messinscena, e ancora più precisamente in quella sottodivisione che ha per titolo Profumo di mirto o il banchetto con i fratelli.
Giuseppe non si è ancora rivelato ai fratelli. Parla a loro come visir, secondo a Faraone solo per il trono. Li ha convocati a banchetto e disposti secondo il giusto ordine d’età, stupendoli non poco. Particolarmente meravigliato è il più piccolo di loro, Beniamino, il fratello più caro a Giuseppe, perché figlio della stessa madre, Rachele.
Giuseppe gli fa credere di poter vedere in luoghi lontani e nel passato grazie a una coppa. Servendosi di quella gli descrive la tomba della madre e poi parla del giovane vanesio che vede (lui stesso tanti anni prima…). Riporto il brano nella traduzione di Bruno Arzeni per Mondadori:
«È mio fratello Giuseppe» disse Beniamino, e i suoi grigi occhi si empirono di lacrime.
«Oh, perdona!» disse il suo vicino spaventato, e depose la coppa. «Non avrei parlato di lui in modo così sprezzante se avessi saputo che è il tuo fratello scomparso. E quello che ho detto della tomba, cioè della sua, non devi prenderlo troppo seriamente e darvi eccessivo peso. La tomba è bensì una triste buca, profonda e scura; ma la sua forza di trattenere è ben poca.
È vuota per natura, devi sapere: la caverna è vuota quando aspetta la preda, ma se vai a vedere quando l’ha catturata, ecco, è vuota di nuovo, la pietra è stata fatta rotolare via. Io non dico che la fossa non sia degna di pianto, anzi bisogna levare alti e acuti lamenti in suo onore, perché essa è una realtà, una seria e profondamente triste istituzione del mondo e della solenne storia nella scansione delle sue ore. Anzi, arrivo perfino a dire che per rispetto della fossa non dobbiamo far vedere che sappiamo come per natura essa sia vuota e non abbia la virtù di trattenere. Sarebbe disdicevole nei confronti di una istituzione così ammantata di serietà. Con alte, acute grida bisogna piangere e lamentarsi, e solo in segreto nutrire la certezza che non vi è discesa nelle tenebre che non abbia come suo necessario complemento la resurrezione. Come imperfetta e frammentaria sarebbe mai la solenne storia e celebrazione che s’interrompesse a metà, che arrivasse solo alla tomba e non sapesse andare avanti! No, il mondo non è una metà ma un intero e un tutto è la festa, e nel tutto vi è, incrollabile, una certezza consolante. Non rattristarti dunque per quel che ti ho detto intorno alla tomba di tuo fratello, ma fatti animo!»”.
A questa pagina pensavo salendo e scendendo dall’Appennino l’altro giorno. Ma, a dire il vero, ci penso anche in altre occasioni… Cercavo anche di immaginare quello che penserebbe oggi Thomas Mann della sua Germania, dell’Europa, delle guerre in corso, del ruolo degli artisti, lui che era stato un aperto sostenitore della guerra per il suo Paese, salvo poi cambiare idea. E chissà cosa si direbbero, lui e Kafka, seduti su due sdraio sul balcone di un sanatorio…
Saul Stucchi
Leggi anche: Un anno in compagnia di “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann