Questa settimana l’editoriale “L’ALIBI della domenica” è dedicato alla rilettura, in particolare dei romanzi-fiume.
Ho finito ieri “Terra Alta”, il più recente romanzo di Javier Cercas, pubblicato in Italia da Guanda con la traduzione di Bruno Arpaia (il libro ha vinto il Premio Planeta 2019).
Senza svelare troppo della trama, posso dire che racconta di un efferato pluriomicidio avvenuto nell’omonima comarca della Catalogna, quella che abbraccia una parte dell’ultimo tratto del fiume Ebro. Alcuni toponimi citati nel romanzo mi suonavano familiari: Móra d’Ebre, Miravet, Tortosa, Amposta… Sono luoghi che ho attraversato nell’estate del 2018 durante un viaggio lungo il fiume Ebro, da fonte a foce, viaggio che è diventato un reportage pubblicato a puntate qui su ALIBI Online.

Melchor e “I miserabili”
Ma è di altri viaggi che voglio parlare adesso. Il primo è quello che il protagonista, Melchor Marín, un poliziotto con un passato turbolento (vi lascio scoprire il presente), compie – ripetutamente – nel romanzo “I miserabili” di Victor Hugo. Melchor (e dietro di lui Cercas) è convinto che ogni rilettura sia una nuova lettura e che dunque non si rilegga mai lo stesso libro. Alberto Manguel sarebbe sicuramente d’accordo con questa affermazione dal sapore eracliteo.
Qualcuno ha insegnato al giovane agente la massima di Joseph Conrad secondo cui “si scrive solo metà del libro, l’altra metà sta al lettore”. Mentre le vicende del poliziotto catalano s’intrecciano con quelle dei personaggi dei “Miserabili”, al lettore viene inevitabilmente voglia di leggere – o rileggere – il romanzo-fiume di Hugo. Metafora tutt’altro che casuale, visto che la Senna de “I miserabili” si rispecchia nell’Ebro di “Terra Alta”.
Io confesso di aver letto soltanto una parte de “I miserabili”, quella relativa alla battaglia di Waterloo, una pietra miliare nella “letteratura napoleonica”.
Se non avesse piovuto nella notte dal 17 al 18 giugno 1815, l’avvenire dell’Europa sarebbe cambiato. Qualche goccia d’acqua in più o in meno ha fatto cadere Napoleone. Affinché Waterloo fosse la fine di Austerlitz, la Provvidenza non ha avuto bisogno che di un po’ di pioggia, e una nuvola che attraversò il cielo in contrasto con la stagione è bastata a far crollare un mondo”
Traduzione di Liù Saraz per i Grandi Libri Garzanti.
Per Melchor “I miserabili” è molto di più di un romanzo: è un codice che consente al poliziotto di interpretare la propria vita e il mondo che lo circonda. Sarà la bibliotecaria Olga ad allargare i suoi orizzonti culturali, facendogli da guida nella letteratura. Gli darà consigli su altri fondamentali romanzi dell’Ottocento e su alcuni romanzi del Novecento che sembrano scritti nell’Ottocento (definizione perfetta per quel capolavoro de “Il gattopardo”).
Giuseppe in Egitto
Il secondo viaggio di cui voglio parlare si porta con sé il terzo: procederanno anzi insieme. Tornerò a immergermi nel romanzo “Giuseppe in Egitto”, terzo capitolo della tetralogia “Giuseppe e i suoi fratelli” di Thomas Mann. Viene dopo “Le storie di Giacobbe” e “Il giovane Giuseppe” e anticipa il pannello conclusivo di “Giuseppe il Nutritore”.
In tutto oltre 2200 pagine – nell’edizione dei Meridiani Mondadori curata da Fabrizio Cambi con traduzione di Bruno Arzeni – per “riassumere” (passatemi il termine in cui mi piacerebbe che qualcuno riscontrasse una goccia dell’ironia manniana) i 25 capitoletti del libro della Genesi dedicati alle vicende di Giacobbe e dei suoi figli.

Questo mio viaggio – un ritorno che sicuramente susciterà ricordi ma anche nuove scoperte – avrà un ritmo zoppicante, con tappe quotidiane alternativamente di 7 e 8 pagine, per consentirmi di concludere il romanzo in 100 giorni esatti, in prossimità del prossimo Natale (giorno più o giorno meno).
Accompagnerò il protagonista nel suo viaggio in Egitto. Arrivato da schiavo, vi farà carriera fino a essere secondo solo a faraone (ma soltanto per il trono). Come ci riuscirà? Con le sue doti di intelligenza, versatilità e affidabilità.
Senza tralasciare la più utile di tutte, quella che l’avvicina a Ulisse: la paraculaggine (Thomas, perdonami!). Questa caratteristica emerge chiara fin dalla prima scena. Vi regalo solo un breve assaggio:
Dove mi conducete?” domandò Giuseppe a Kedma, uno dei figli del vecchio, quando, giunti in un bassopiano ondulato illuminato dalla luna, ai piedi dei monti chiamati “l’Albereto”, piantarono le tende per passarvi la notte.
Kedma lo guardò dall’alto in basso.
«Sei proprio un bel tipo!» gli disse, e scosse la testa per fargli capire che non intendeva “ammodo”, ma molte altre cose come “ingenuo”, “sfacciato”, “strano”. «Dove ti conduciamo? Forse che ti conduciamo? Noi non ti conduciamo affatto! Tu sei con noi per caso, perché mio padre ti ha comprato da duri padroni, e vieni con noi dove noi andiamo. E questo non si può certo chiamare “condurre”.»
«No? E allora no» rispose Giuseppe. «Intendevo soltanto, dove mi conduce Dio, mentre viaggio insieme a voi?».
Non rimane che augurarmi (e augurarvi) buon viaggio e buona lettura!
Saul Stucchi