Ernst H. Gombrich è stato uno dei maggiori studiosi d’arte del XX secolo. Più segnatamente uno storico dell’arte: ma può uno storico dell’arte non avere una propria visione dell’arte stessa? Evidentemente no, a meno che non sia un semplice compilatore di schede, un accademico di non eccelso valore e così via. Non è questo il caso.
Austriaco naturalizzato inglese, nato a Vienna nel 1909 e scomparso a Londra nel 2001, Gombrich ha non solo compiuto brillanti ricognizioni dell’espressione artistica attraverso i secoli ma ha attraversato in proprio modelli e concezioni dell’arte, in virtù di un approccio mobile, curioso, che ha compreso prima di altri l’universo degli scambi fra gli oggetti estetici, la multimedialità, il dialogo fra discipline diverse, e si è incardinato all’inizio su una riflessione che vedeva l’arte (la sua storia) poggiare su basi filosofiche e psicologiche che poi nel tempo sono state rimesse in discussione in proprio.
Lo scrive lo stesso autore nella prefazione (1963) al volume recentemente ripubblicato da Mimesis, A cavallo di un manico di scopa – il lavoro è del 1951. Abbandonare o porre in secondo piano gli aspetti che per lo studente viennese (poi fuggito in Inghilterra, lui ebreo, per le leggi razziali) erano centrali, significò intanto porsi il problema della rappresentazione ossia di biasimarne la precaria pretesa di dirci il mondo attraverso l’opera.
Che invece è fatto a sé, non imitazione ma segno che è causa sui, un gioco di reinvenzione e ricreazione nuovo, certo non dismesso a mera pratica da entertainment, da tempo libero o vacante, irresponsabile, ma quale gesto che riscrive i materiali d’uso e ne fa altro, come il celebre manico di scopa cavalcabile grazie alla magia di averlo immaginato.
Nulla di romantico, s’intenda, ma un progressivo distanziamento del mito dell’imitazione con cui Gombrich si era formato. Ne viene che si tratti di vignette o arte astratta, di espressionismo o figurazioni romantiche, lo spettatore s’incarica di un ruolo non secondario: egli partecipa dell’oggetto estetico ridisegnandoselo nella sua percezione per occupare un alterato ma non necessariamente implausibile spazio di creatività.
Si pensi a Leonardo: “Il pittore deve lasciare allo spettatore qualcosa da indovinare; se i contorni non sono delineati rigidamente, se si lascia un poco vaga la forma come se svanisse nell’ombra, ogni impressione di rigidezza e di aridità sarà evitata. Questa è la famosa invenzione leonardesca dello ‘sfumato’: il contorno evanescente e i colori pastosi fanno confluire una forma nell’altra lasciando sempre un margine allo nostra immaginazione”.
Coerentemente con il suo approccio individualistico – celebre l’attacco alla Storia sociale dell’arte di Hauser -, e con la crisi statutaria del concetto di rappresentazione, il discorso di Gombrich sulla percezione come disposizione soggettiva si avvia, si diceva, col celebre “manico di scopa” che diventa un cavallino giocattolo: “Come chiamarlo?. Dovremmo descriverlo come l’immagine di un cavallo? Il ritratto di un cavallo? Sicuramente no. Il sostituto? Sì, questo sì. E forse in questa formula c’è più di quanto sembri”.
Perché, ovvio, non v’è lì nessuna imitazione di un cavallo. Ma una sostituzione, ciò che l’uomo fa di continuo, anche nell’arte. Non v’è nessuna necessità di somiglianza formale fra il segno e il suo significato perché qualcosa agisca nella visione. Con questo gesto mentale stiamo nei pressi fondativi di un’episteme, benché inconsapevole: lo iato fra soggetto e oggetto si ricompone in un continuum che è il mondo.
Nei saggi qui contenuti il principio si avvale di contributi diversi: arte medievale, psicoanalisi, illustrazioni satiriche – e adeguato apparato illustrativo. A dimostrare il peso di un lascito interpretativo importantissimo non solo per gli studi di riferimento.
Michele Lupo
Ernst H. Gombrich
A cavallo di un manico di scopa
Mimesis
Traduzione di Camilla Roatta
Collana Warburghiana
2024, 354 pagine
26 €