A inaugurare il ciclo di incontri Autori a chilometro zero organizzato dalla Biblioteca di Mezzago, lo scorso mese di maggio è stata invitata la scrittrice brianzola Elena Rausa che ha esordito con il romanzo Marta nella corrente edito da Neri Pozza e a presentarla il giornalista che qui scrive il resoconto di quella piacevole serata.
L’incontro pubblico è stato per me anche un modo per proseguire un dialogo con Elena già iniziato in precedenza, non soltanto in occasione di un’altra presentazione a Monza, ma anche di pranzi trascorsi a parlare del suo libro, prima e dopo la pubblicazione e la recensione di Marta nella corrente, qui, su ALIBI. E questo dico ai presenti anche per spiegare il vassoio con fette di salame e pezzi di formaggio che campeggia davanti a noi sul tavolo, a cui fanno da guardiani due calici di vino rosso. “Abbiamo mangiato un sacco!”, scherza Elena tra le risate del pubblico.
Le chiedo di aprire raccontando in breve la trama del romanzo, per chi ancora non l’avesse letto. Così riporta il calendario indietro al 1982 (l’anno dei Mondiali di calcio in Spagna, quelli di Paolo Rossi) per presentare la psicologa sessantenne Emma, la piccola Marta rimasta orfana per la morte della madre in un incidente, e suo nonno, che lei non ha mai conosciuto. A questa storia principale s’interseca con spezzoni in flashback una vicenda del 1943. Marta ed Emma col tempo riusciranno a parlarsi perché riconoscono di condividere il dolore di essere delle sopravvissute.
È il momento del primo brindisi che dedico “alla strada che ci ha portato a Monza (al liceo classico Zucchi, ndr) e da Monza a Mezzago per questa serata”. Rivedo ancora gli sguardi sorpresi dei presenti, mentre facciamo tintinnare i bicchieri e li portiamo alle labbra. “Io farò dei piccoli sorsi – dice Elena – perché non vorrei assomigliare a Bukowski…”.
Ma come è arrivata al primo libro? Innanzitutto “un libro, prima di essere tale, è un’altra cosa”, spiega rievocando quanto le disse il consulente editoriale a cui mostrò il manoscritto. “Libro” lo diventa solo dopo aver trovato un editore, quando prende forma e compaiono i numeri sulle pagine… A Neri Pozza, in realtà, è arrivata piuttosto casualmente. Avendo scoperto che la persona che si occupa degli autori italiani è un docente universitario, gli ha scritto un’email. “Ah, ma allora c’è qualcuno in Italia che legge le email!”, provoco io, mentre lei riprende il filo del racconto. Ma preferisce soffermarsi su che cosa abbia significato per lei scrivere.
Confessa di essersi tenuta lontana dalla scrittura creativa per tanto tempo, anche se da sempre vive in mezzo ai libri, fa l’insegnante di lavoro e in passato si è dedicata alla filologia. “Sentivo il bisogno di fare cose piccolissime per ridare la voce a chi l’ha persa”, dice, riconoscendo che quel nobile proposito era frutto dell’idealismo della ventenne di allora ma anche una sorta di paura per la parola “liberata”. “Il linguaggio è sostanzialmente il nostro strumento di cittadinanza: quando parliamo non siamo più soli”, aggiunge. La letteratura va a toccare le nostre corde più sensibili e nella sua storia personale, come in quella di tutti, ci sono state esperienze di dolore, ma la scrittura non ha avuto per lei una funzione terapeutica perché vi è arrivata quando stava bene: quando invece stava male, non poteva scrivere.
Constatato che Elena non se la sente di prendere qualcosa dal vassoio, la invito a condurci nella sua “cucina” di autrice. Come ha costruito il romanzo? “Chi scrive ha bisogno, in itinere, delle impressioni di chi legge”. Ha trovato utilissimi i consigli degli amici a cui raccontava la vicenda a mano a mano che la scriveva. Con Giuseppe Russo, direttore editoriale di Neri Pozza, ha invece lavorato sul linguaggio di Marta per semplificarlo e portarlo dal proprio livello di insegnante di italiano a quello appropriato a una bambina di 7 anni.
Ha particolarmente apprezzato il lavoro filologico della correttrice di bozze (“la bravissima Nicoletta”) che è andato ben al di là del semplice controllo dei refusi; è stata un’attenta ricerca delle incongruenze: “perché a pagina 12 questo personaggio si siede su una panchina e a pagina 15 si alza da una sdraio?”. Sono cose importanti perché sui particolari si gioca la credibilità dell’autore e se questa viene meno per un errore a prima vista insignificante, crolla tutto.
Elena arriva al cuore della storia del suo romanzo raccontando di essersi innamorata della vicenda di una ragazza ebrea, laureata in medicina, che venne arrestata a 800 metri dalla casa in cui lei passa da sempre le vacanze in montagna. Il suo nome era Luciana Nissim. Deportata ad Auschwitz insieme a un amico, come lui riuscì a salvarsi. Lui era Primo Levi. Entrambi però persero parenti e amici nei campi di concentramento. Luciana divenne allieva di Cesare Musatti, per poi conoscere e sposare l’economista Franco Momigliano. Elena ha capito solo dopo molto tempo perché si era innamorata di quella vicenda e il motivo era il lungo silenzio mantenuto da Luciana fino alla morte del marito e a quella, tragica, di Levi. Lei stessa si è domandata cosa significhi vivere dopo una perdita importante, se si deve voltare pagina o se la perdita deve continuare a far parte della nostra vita. E quanto condividere con gli altri?
In punta di piedi ha voluto raccontare una storia che ha a che fare con la Shoah, ma senza quell’aura di sacralità che secondo lei congela la tragedia. “Penso di aver deciso di fare l’insegnante quando ho letto una pagina di Levi in cui, nel campo di concentramento, si ostinava a cercare di ricordare il canto di Ulisse per comunicarlo a un compagno di prigionia polacco. Il pensiero ‘Ti possono togliere tutto, ma il canto di Ulisse è tuo’ è stato il motore della scelta di fare questo mestiere”.
Si è messa a studiare quelle storie finché non ha sentito la voglia di raccontarle a suo modo. Ogni sera riprendeva il romanzo dal punto in cui si era fermata la sera prima, senza sapere però come sarebbe andata avanti. Così scrivere il libro è stato un po’ come leggerlo.
È molto affezionata ai tre protagonisti: la piccola Marta, suo nonno e la psicologa Emma. C’è molto di lei in Marta, bambina degli anni Settanta: la scuola, la cartella, i compagni, la maestra… Emma invece è spigolosa, ma di quella spigolosità che ci può stare nella vita di una persona. Da parte sua il nonno, come molti uomini della sua generazione, concepisce l’affetto come protezione e questo allontana un po’, perché le persone hanno bisogno di essere amate, non di essere tutelate, soprattutto se tutela significa limitazione alle loro possibilità di conoscenza e di movimento.
Spiegando ai suoi alunni i vari generi di narratore, ha citato loro il film Il cielo sopra Berlino, in cui l’angelo può sentire tutto ma non può assolutamente intervenire nelle cose che capitano. Si è resa conto che il suo narratore è una specie di antenna capace di captare e in qualche modo portare su di sé (costringendo il lettore a fare lo stesso) le sensibilità così diverse dei vari personaggi di cui all’inizio lei stessa non sapeva quasi nulla e che a poco a poco le si sono rivelati più in profondità.
All’osservazione di una lettrice che ha confessato di aver incontrato all’inizio un po’ di difficoltà a familiarizzare con i personaggi, Elena ha parlato del valore della pazienza, una caratteristica che ritorna nel romanzo. Marta, per esempio, non parla finché non capisce che chi ha di fronte è in grado di accoglierla, di comprenderla. Tutta la trama sembra dirci che occorre pazienza, che ci vuole lo spazio dell’ascolto.
La serata è volata sfiorando le vette dell’empireo della letteratura, da Montale a Levi, da Hannah Arendt a Thomas Mann. Ma prima di invitare i presenti a condividere con noi l’aperitivo Elena racconta un episodio che non ricordavo. Al ginnasio il professore di italiano (presente in sala) ci diede da leggere L’idiota di Dostoevskij. Elena andò in biblioteca e per sbaglio prese il secondo tomo convinta che fosse il primo. Dopo la lettura ci fu una conversazione tra noi compagni alla quale lei intervenne dicendo: “No, per carità, interessantissimo, ma questi russi mi sembra che diano un po’ troppe cose per scontate…”.
Mi aveva chiesto di non riportarlo, ma non ce l’ho fatta. Un po’ per il giornalista che sono ora e un po’ per lo studente timido che faceva tappezzeria alle sue feste venticinque anni fa.
Saul Stucchi
Foto Studio Fotografico Giudicianni & Biffi
- Marta nella corrente
- Autore: Elena Rausa
- Editore: Neri Pozza
- Pagine: 272