“Se penso all’Olanda / vedo larghi fiumi / che vanno lentamente / in pianure infinite, / filari di pioppi / di rara trasparenza / come piume affilate / piantate all’orizzonte; / e sprofondate / negli spazi immensi / le fattorie / sparse tra i campi, / albereti, paesi, / torri mozzate, / chiese con gli olmi: / un insieme grandioso. / Il cielo è basso / e il sole pian piano / affoga in grigi / cangianti vapori / e per tutte le terre / la voce dell’acqua / coi suoi disastri eterni / è ascoltata e temuta”: così recita una celebre lirica di Hendrik Marsman, importante poeta olandese (nato nel 1899, morì nel 1940, a bordo di una nave silurata dai tedeschi mentre attraversava il Canale della Manica) che Marino Magliani ha avuto modo di trasporre nella nostra lingua.
Come sanno i suoi estimatori, tra i quali mi annovero, Marino è nato a Dolcedo, in Liguria, e, dopo pellegrinaggi lavorativi tra Spagna, Argentina, Francia, Corsica e Svizzera, è approdato ormai da decenni a IJmuiden, sul Mare del Nord. Questi variegati spazi – e le relative genti – nutrono la sua scrittura, affilatasi anche nel prolungato confronto coi numerosi autori di lingua spagnola da lui man mano tradotti (segnalo, in particolare, Roberto Arlt, Gabriel Miró, Pablo d’Ors, Horacio Quiroga, Ricardo Güiraldes, César Vallejo, e soprattutto il grande desaparecido Haroldo Conti).

Romanzo olandese è, come recita il sottotitolo, una trilogia, costituita dai racconti lunghi La talpa, Le vetrate di Rembrandt e Biografia di un paesaggio anfibio. Tuttavia, i lettori attenti coglieranno lungo le pagine una fitta, sottile rete di richiami e rimandi interni, tali da garantire al libro la sua incontestabile unità (un trittico, dunque, più che una trilogia, a richiamare il Trittico di mare e di terra di Álvaro Mutis).
Vi si parla di Olanda, evidentemente, con però frequentissimi rimandi alla Liguria, come in una sorta di canto sovrapposto tra l’orizzontalità del Paese Piatto (Vlakke Land) e la verticalità delle Alpi Marittime imperiesi. E viene il sospetto che Marino – un po’ come il calzolaio catalano di Macondo, in Cent’anni di solitudine – quando si trova sui canali nederlandesi abbia nostalgia della Val Prina, ma quando torna a Prelà rimpianga le basse dune oceaniche (“il dunario”, le chiama lui) sulle quali è solito passeggiare.
Nel primo pannello, racconta dell’incarico di redigere una guida su Amsterdam, e della maniera diciamo eterodossa in cui lo svolge. Qualche anno fa, avevo percorso anch’io la città, pedalando con mia figlia, e c’è qui tutta una serie di dettagli, immagini e luoghi in cui mi ritrovo: gli sbatacchi delle catene per assicurare le bici a ogni tappa; la Stazione Centrale e i canali che la circondano, con la imponente Biblioteca e col naviforme Museo della Scienza progettato da Renzo Piano; la statua dello scrittore anticolonialista Multatuli; il Vondelpark; il pub o birreria Sluyswacht; i mercatini (Albert Cuypstraat, Waterlooplein, Westerstraat); la Galleria dei Libri (Boekenmarkt), con scolpiti sul portale enormi occhiali stile Guglielmo da Baskerville…
Riconosco la zona a nord della città: il Golf Waterland, il polder Vogelmeer e quindi il villaggio di Broek. Ma ecco che il personaggio chiamato nel libro “Marino Magliani” impartisce alla vicenda una svolta inaspettata: ispirato dagli scavi per la metropolitana, scende, col compagno d’avventura – e suo editore – Fagel, con la graziosa coltivatrice biologica Welmoet “dai polpacci potenti” e con l’assistenza “venatoria” del cane Dedalo (che, per il ruolo, mi ricorda i suoi simili nei romanzi di José Saramago), in fantomatici sotterranei irraggiati sotto l’intero centro storico della città, in corrispondenza con vie e canali di superficie.
Il pensiero corre a Jean Valjean che, nei Miserabili, si aggira per le enormi fogne di Parigi, scoprendovi un mondo. Ma quelle esistono davvero e sono note a tutti, così che Victor Hugo trae spunto per suggerire qualche razionale riflessione sulle ricchezze che se ne potrebbero ricavare. Il mondo sotterraneo di Amsterdam (ammesso che ci sia…) risulta invece coperto da segreto (militare? spionistico?), sicché, quando gli esploratori riemergono alla luce del sole, Fagel viene arrestato dalla polizia e Marino deve fuggire in Italia sotto falso nome (la donna, probabilmente consapevole del rischio, se ne era andata prima).
Nel secondo pannello, il cosiddetto Magliani, ormai tornato da parecchio tempo al suo “dunario”, decide di mettersi a comporre una serie di “acqueforti” (idea mutuata dall’argentino Roberto Arlt) su scorci di campagna ligure e su vie e scenari domestici olandesi.
A tal proposito, avvia un’attività di osservatore degli interni delle case, visibili attraverso le ampie vetrate. Queste aperture sono una tipicità locale, tanto che solo qui ho capito il senso dell’espressione usata da Ghiorgos Seferis in una sua poesia: “L’aria di una giornata che vivemmo in un Paese straniero dieci anni fa… Finestre esantematiche…” – ossia, che si estendono per quasi tutto lo spazio della parete, come una malattia esantematica sulla pelle.
Il suo sodale indigeno Piet gli spiega che tale aspetto di “trasparenza” è connesso alla mentalità calvinista: non hanno nulla da nascondere, neppure nella vita quotidiana. La mia ipotesi invece, assai più ordinaria, è che in terre di luce così avara si cerca, al contrario di quel che Francesco Biamonti osservava a proposito dell’abbacinante Liguria, di ridurre al minimo l’ostacolo opaco dei muri.
In questo girovagare di vetrata in vetrata, il suo interesse viene magnetizzato da Anneke, le cui caratteristiche fisiche gli paiono da addetta alla pulizia delle aringhe. Con lei avvia uno scambio epistolare di biglietti appoggiati al vetro, vicenda che richiama in qualche modo la trama del romanzo di David Grossman Che tu sia per me il coltello. Il carteggio termina nel momento in cui la scorge in serena compagnia di un uomo, probabile marinaio e suo compagno. Ma il lavoro delle “acqueforti” prosegue.
Terzo pannello. Archiviate le due precedenti prove di scrittura, l’io narrante si cimenta con la “biografia del Noordzeekanaal”, opera anch’essa concepita peregrinando lungo i torrenti liguri, e con ripetuti richiami a due precedenti libri del “vero” Magliani (rispetto al quale l’omonimo fittizio dell’attuale volume presenta sempre qualche impercettibile scarto): Il Canale Bracco e L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi.
Di nuovo compare, ad avvincere il protagonista, una donna muscolosa e sfuggente: campionessa di bocce, stavolta. Si (ri)scopre che la parola “bracco” non allude a una razza canina (o a un cognome di Fabbrica Curone, aggiungo io), ma viene dall’aggettivo “brak”, ossia salmastro. Ed è la cangiante salinità di queste acque a determinarne, di volta in volta, l’ecosistema (e quindi la biografia…).
È questa la parte che più tende al racconto odeporico, ancorché l’itinerario inizi appena fuori porta e sia, invero, parecchio antropizzato: il narratore cammina lungo le rive del corpo idrico, descrive quel che vede e chi incontra, ipotizza, riflette. Vengono in mente, per analogia di temi e per efficacia evocativa, gli appunti del diario di Gianni Celati sulla perlustrazione dell’area rivierasca del Po, poi confluiti nel magnifico Verso la foce. Si trovano qui le righe forse figurativamente più belle del libro (e forse qualcosa c’entra la pittura fiamminga):
“Il cielo ci ha messo un giorno a preparare il tramonto, a metà vetrata si allunga la linea orizzontale del tetto di fronte, è nera e la ragnatela degli alberi ramifica il giallo del cielo. Nell’angolo superiore a destra è già notte. Il merito di questo cielo sta nell’averci lavorato tutte quelle ore. Ma due volte su tre il tramonto si sfalda prima, passa un rotolo di stracci vaporosi e il vento ritaglia i grigi come una prova…”;
“Nella nebbia nera si sentono le sirene dei pescherecci, appaiono un attimo nel fascio di luce debole e lungo del faro, e spariscono. A volte la notte scuoia un pezzo di cielo e allora esce una luna…”;
“La luce non giunge più a destinazione ma per un breve lasso di tempo deposita sulle sporgenze un’immagine di sé, in caduta. Tutto è, a breve scadenza, una pellicola di ruggine sugli edifici a levante, sulle vetrate, sulle strade. Sembra fatta per durare, se uno non lo sapesse, invece si è già trasformata in umidità e l’alone del lampione per terra fa il resto…”.
Marino Magliani appartiene, indubbiamente, alla “linea ligure” di lirismo descrittivo che va da Boine e Sbarbaro fino a Biamonti e Orengo. Non è, però, epigono di nessuno di loro, possedendo una propria voce autonoma, chiaramente riconoscibile, e soprattutto un’idea del tutto personale sul ruolo della letteratura nelle nostre esistenze, più o meno gratificanti, più o meno bisognose di conforto: “Guardi queste cose, e non ti manca nulla, e allora ti accorgi che pensi solo a cosa ti manca perché cosa hai proviene solo dalle pagine”, oppure “A volte le frasi degli scrittori servono a misurare la vita, a muovere le foglie, e stanno lì, libere dai libri e sparse sul divano, al di qua della vetrata e della fronda, a volte vengono adoperate come legittima difesa”.
Ci sarebbe ancora parecchio da dire – sullo stile e su altri aspetti – per riportare tutte le note che ho preso durante la mia lettura. Ma cercare di spiegare troppo sarebbe far torto all’autore e soprattutto al lettore “terzo”, cui lascio invece il compito di indagare di sua iniziativa il prezioso giacimento di emozioni – estetiche ed esistenziali – che Romanzo olandese nasconde in sé.
Marco Grassano
Marino Magliani
Romanzo olandese – Trilogia
Scritturapura
Collana Paprika
2025, 312 pagine
20 €