Un tuffo nel passato. Ma non sto parlando solo del cinema del passato. Con questo termine intendo il mio di passato. Non credo di aver mai amato particolarmente il genere western, però sono il primo a confessare di essere cresciuto (parlo degli anni Cinquanta) con il mito americano degli indiani contro i visi pallidi.
Ricordo perfettamente che prima ancora di vedere le pellicole in televisione, giocavo con i soldatini, leggevo (o per meglio dire, guardavo i disegni) storie incentrate sulla conquista del West: e sempre, la “legge” dentro di me, mi portava a parteggiare per le virtù delle giacche azzurre piuttosto che con quei cattivoni dei musi rossi.

Eppure, a ripensarci bene, in quel tempo c’era una semplicità, una ingenuità spazzata via dalle analisi e dalle complicazioni arrivate negli anni successivi. Non c’era da scegliere tra il bene e il male. La giustizia era amministrata in modo veloce e certa (spesso a colpi di Colt). E i personaggi avevano una sola faccia: il buono, il malvagio, l’eroe, il buon padre di famiglia etc. L’epopea classica del western (parlerò in seguito delle varianti) somigliava più a una favola che non a un romanzo verista.
Stavo pensando a una pellicola che rappresentasse in modo esauriente il genere e mi sono fermato su Ombre rosse di John Ford (1939) che è tra le più famose e forse la più classica delle storie che si rifanno a quei tempi.
La vicenda è semplice: una diligenza (con un’umanità molto varia tra i passeggeri) da Tonto deve raggiungere Lordsburg, proprio nel giorno in cui gli Apache capeggiati da Geronimo si sono ribellati e minacciano chiunque attraversi la loro strada. Ci sono ovviamente le giacche azzurre che intervengono al momento giusto e salvano tutti; così come tra i passeggeri si sviluppano storie diverse (la vicenda personale di Ringo, la nascita di una bambina, il dottore alcolizzato e altre) che – trattandosi, come dicevo prima, di una specie di favola – trovano tutte il proprio happy end.
Ombre rosse (Stagecoach in originale) appare nel 1939, allorché il western era considerato abbastanza in disarmo: John Ford riesce nell’impresa d’innalzare a opera d’arte un genere che fino a quel momento era visto più che altro come intrattenimento popolare. Questo perché assistiamo negli USA a una fase di transizione epocale.
Dopo la grande depressione, il proibizionismo e il New Deal di Roosevelt, siamo alla vigilia della Seconda guerra mondiale e la diligenza che attraversa la Monument Valley sembra la fotografia (in movimento, naturalmente) di un passaggio non solo geografico, ma anche storico.
L’attraversamento della diligenza ricorda in modo stupefacente il passaggio dei choppers di Easy Rider: anche con Hopper c’è la fine di un certo perbenismo borghese e la voglia di cambiamento dei giovani americani. Tornando, però, a John Ford, anche tra i suoi viaggiatori ci sono tanti scarti della società, che desiderano salvarsi dalle “delizie della civiltà” (citazione tratta dalla pellicola stessa).
Un aspetto che mi piace sottolineare è il fatto che l’antagonista (gli indiani, o meglio Geronimo), per tutta la durata della pellicola viene solo evocato, non è mai mostrato: la paura che incute tra gli uomini bianchi è solo raccontata, mai reale: succederà lo stesso in tanti film successivi come Lo squalo di Spielberg o Il silenzio degli innocenti di Demme.
“Gli indiani non lasciano mai tracce. Strisciano in terra come dei serpenti.” (Gatewood)
Ombre rosse parte da una sceneggiatura di Dudley Nichols, che l’aveva adattata da un racconto di Ernest Haycox (La diligenza per Lordsburg). I diritti del racconto erano stati acquistati da John Ford, il quale propone il progetto a diversi studios di Hollywood. Lo rifiutano quasi tutti e perché il genere western sta declinando, e perché Ford insiste nel volere come attore John Wayne (in quel momento, ovviamente, sconosciuto) in un ruolo importante (Ringo).
Alla fine si raggiunge un accordo con il produttore indipendente Walter Wanger che mette sul tavolo la metà circa della somma richiesta dal regista (250.000 dollari) e le riprese possono cominciare. Si cerca di risparmiare sulle spese e dopo tre mesi di lavorazione il film è concluso. Oltre che nella citata Monument Valley, le location scelte si trovano in Arizona, California e Utah.
Prima di parlare di John Ford, ricordo solo che Ombre rosse ha conquistato l’Oscar nel 1940 e, nel 1995 è stato selezionato per la conservazione nel National Film Registry dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti perché considerato “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”.
John Ford
John Martin Feeney (vero nome del regista americano) nasce nel Maine nel 1894 e muore a Palm Spring nel 1973. Figlio di immigrati irlandesi, adotta lo pseudonimo di Ford quando raggiunge il fratello maggiore (Francis che utilizza il cognome Ford come attore) a Hollywood. Delle sue prime prove nel mondo della celluloide non si sa molto. Voglio, però, ricordare che nel 1915 ha una parte nella pellicola di David Wark Griffith Nascita di una nazione e questa esperienza gli permette di osservare da vicino uno dei maestri del cinema.
“Come sono arrivato ad Hollywood? In treno.”
Ford cresce parallelamente allo sviluppo della settima arte: il suo primo lungometraggio (Straight shooting: in italiano Centro!) è del 1917. Oltre che nel western, ha spaziato in altri generi, ottenendo spesso il favore della critica, insieme con un notevole riscontro al botteghino.
Ricordo almeno La pattuglia sperduta, 1934; Furore, 1940, ovviamente tratto dal romanzo di John Steinbeck; Sentieri selvaggi, 1956); Il massacro di Fort Apache, 1948; L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962.
Agli inizi della carriera firma delle pellicole di natura espressionista [vedi per esempio Nosferatu di Murnau; in seguito riesce a fondere questi temi con altri più vicini allo spirito popolare come in The hurricane (1931). La sua grande scommessa (vinta) è Grapes of wrath (Furore), film che – come nel romanzo – presenta l’altra faccia degli USA, la faccia che racconta i mali endemici della società americana.
“Mi piace fare film, ma non è il caso di chiedermi di parlare di arte.”
Chiudo su John Ford, ricordando che ha vinto l’Oscar come miglior regista nel 1936, nel 1941, nel 1942 e nel 1953.
Note e curiosità
I Navajo residenti nella riserva in Ombre rosse interpretano gli Apache e nelle pellicole successive di Ford vestiranno i panni anche delle tribù Cheyenne e Comanche. Questi film, grazie al molto lavoro che portano, si rivelano un vero e proprio boom per l’economia locale del popolo Navajo.
Ombre rosse è costato 531.371 dollari. Al botteghino ha incassato un milione e 103.757 dollari.
Nel 1966, il regista Gordon Douglas diresse un remake a colori con lo stesso titolo dell’originale (in italiano con il titolo di I 9 di Dryfork City). C’è stata anche una versione televisiva, nel 1986, con la regia di Ted Post.
L S D