Questa settimana l’editoriale “L’ALIBI della domenica” è dedicato a un testimone distratto della pestilenza del 165 d.C.
Anche se non è ancora finita (finirà mai davvero?), possiamo già suddividere in fasi l’epoca della pandemia di Coronavirus. Quelle della diffusione planetaria – e regionale, all’interno di ciascun paese – e quelle della risposta delle varie istituzioni e, a cascata, le fasi di adeguamento di ciascuno di noi. Azioni e reazioni. Altalenanti come le speranze, le paure e le delusioni.
È stato previdente chi ne ha registrato testimonianza fin dalle prime avvisaglie. Un giorno potrà rileggere l’intera parabola della pandemia, constatare quali previsioni degli epidemiologi si siano avverate e quali invece siano state smentite dai fatti, individuare i momenti di svolta e i segnali che, forse, li avevano preannunciati. Ma molto probabilmente non ci capirà nulla, proprio come quando ci si trovava in mezzo.
Senza strumenti interpretativi ben calibrati, a ben vedere siamo tutti come Fabrizio Del Dongo alla battaglia di Waterloo. “Signore, è la prima volta che assisto a una battaglia: ma questa è davvero una battaglia?”.
In parte dipende dalla deformazione prospettica: siamo troppo vicini per vedere bene. Dobbiamo allontanarci, porre del tempo tra noi e l’avvenimento per metterlo a fuoco. E non pensiate che sia un difetto solo nostro, intendo della nostra società iper-tecnologizzata con la testa nel cloud.

Due millenni fa (per arrotondare) Elio Aristide si trovava nella nostra stessa situazione e ne uscì senza capirci nulla. Ma sano e salvo. Soprattutto salvo, in realtà. Quanto fosse veramente sano prima e dopo quella che gli storici chiamano “peste antonina” del 165 d.C. non lo sapremo mai. Non abbiamo naturalmente la sua cartella clinica, ma il retore greco dell’Asia Minore ci ha lasciato i suoi “Discorsi sacri”.
Eric Dodds ha definito l’opera come “la prima e unica autobiografia religiosa che il mondo pagano ci abbia lasciato”. Sono una sorta di diario in cui Elio Aristide annotava i mali che lo affliggevano e registrava i sogni attraverso i quali il dio Asclepio gli indicava (in realtà mai apertamente e chiaramente) i rimedi curativi. “E in ognuna di queste circostanze il dio mi diede antidoti, e conforto di ogni genere, con parole e fatti” (Secondo discorso sacro, 25. Citato nella traduzione di Salvatore Nicosia per l’edizione Adelphi, Piccola Biblioteca 162).
Quando le “prescrizioni” del dio (e Aristide inorridirebbe davanti alle virgolette che io ho messo) erano in contrasto con i pareri dei medici, il malato non aveva dubbi su chi ascoltare.
Questo sogno lo feci quando il medico era già arrivato, e si preparava, per quel tanto che poteva capirne, ad aiutarmi. Ma non appena seppe dei miei sogni, da persona saggia qual era si arrese di fronte al dio; e solo in lui io riconobbi il vero medico all’altezza dei miei bisogni, e ai suoi ordini obbedii. Notte completamente tranquilla, e totale assenza di dolori”.
(Primo discorso sacro, 57)

In un brano del Secondo discorso sacro Aristide racconta come la “peste antonina” si abbatté sulla sua casa, decimando i servi e colpendo addirittura gli animali da soma. Lui stesso fu sul punto di morirne, ma poi si riprese, grazie a un clistere di miele attico e altri medicamenti. Aristide però non si chiede da cosa sia stata provocata la peste, come sia arrivata e si sia diffusa. Non gli interessava o non aveva modo di saperlo. Annota soltanto che la pestilenza si portò via il più valente dei suoi figli adottivi e che quella perdita era una sorta di scambio per la sua stessa vita.
Ho trascorso la prima fase della reclusione per il Coronavirus leggendo i “Discorsi sacri” di Elio Aristide. Li alternavo alle pagine de “Il destino di Roma” di Kyle Harper, pubblicato in Italia da Einaudi nella collana “La Biblioteca” (con traduzione di Luigi Giacone).
Ha ragione Ian Morris: “Kyle Harper è il Gibbon del XXI secolo. Un libro fondamentale”. Se però la “Storia della decadenza e caduta dell’impero romano” di Gibbon è un monumentale affresco che affascina per lo stile e i colori, il saggio di Harper inchioda il lettore per la minuziosa resa dei dettagli. “The History of the Decline and Fall of the Roman Empire” è la Cappella Sistina della storiografia, “The Fate of Rome: Climate, Disease, and the End of an Empire” è il polittico dell’Agnello mistico di Jan e Hubert van Eyck.

Ogni singola pagina del saggio del professore americano è un concentrato di informazioni, confronti e analisi di dati. Lo storico chiama all’appello ogni immaginabile fonte d’informazione per tentare di capire la causa della caduta dell’impero romano. Impossibile qui anche solo tentare di sintetizzarne le considerazioni, salvo accennare che alla fine Harper condivide la meraviglia di Gibbon non già per la caduta quanto per la lunga sopravvivenza dell’impero romano.
Harper dedica a Elio Aristide le pagine iniziali del terzo capitolo, intitolato “La vendetta di Apollo”. In esso si impegna ad analizzare i motivi per cui gli abitanti dell’impero contemporanei del retore erano ricchi ma malati.
Il mondo antico accolse i Discorsi sacri con plauso immediato e universale, senza considerare Aristide la figura eccentrica che i moderni hanno spesso visto in lui. Le terapie da lui seguite su consiglio di divinità e dottori rientravano perfettamente nella corrente principale della pratica medica del II secolo. Ad Aristide erano forse toccate sofferenze più grandi di quelle patite dalla maggior parte dei romani, ma in un’epoca in cui la malattia era una realtà in agguato, pronta a ghermire tutti, l’impotenza e la ricerca di salvezza del retore risultavano affascinanti, poiché da esse traspariva un malinconico legame di solidarietà con il resto del genere umano”.
E più avanti scrive: “Aristide potrebbe ergersi a simbolo di una società completamente indifesa di fronte alla malattia, e destinata a essere ben presto travolta dal dramma di un evento biologico la cui grandezza era ancora sconosciuta perfino in un mondo incessantemente scosso da ondate di mortalità epidemica”.
Nel Quarto discorso sacro Aristide torna con un veloce riferimento alla grande peste antonina, annotando: “E molto tempo dopo ci fu la famosa pestilenza dalla quale manifestamente mi salvarono il salvatore (Asclepio, ndr) e Atena sovrana. Poi trascorsi circa sei mesi di straordinario benessere, cui seguirono la lunga stitichezza, e altri disturbi ancora: tutte cose che il dio regolava, e — sia detto col suo consenso — continua ancor oggi a regolare con le sue quotidiane prescrizioni e predizioni”.
Mettiamoci il cuore in pace: sopravvivere a una pestilenza non significa diventare immortali. E nemmeno garantirsi la regolarità intestinale.
Saul Stucchi
L’immagine della statua di Elio Aristide è presa da Wikipedia
- Elio Aristide
Discorsi sacri
A cura di Salvatore Nicosia
Adelphi
1984, 273 pagine
16 € - Kyle Harper
Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero
Einaudi
Einaudi
2019, X – 510 pagine
34 €