
Doppiata la boa dei quarant’anni, sono dunque arrivato ad Alghero. E sorprendentemente, vi ho trovato quasi soltanto lo straniero, nella fattispecie spagnolo (e/o catalano). Le storie che avevo sentito mi avevano messo in guardia, tanto che temevo una ressa da centro commerciale padano alla vigilia di Natale. Nulla di tutto ciò, invece. È stato relativamente semplice trovare parcheggio e per le strade i turisti non si muovevano in indefinibili e ondeggianti branchi transumanti, ma tutt’al più in nuclei mono-familiari. Alla biglietteria della mostra su Gaudí a l’Alguer ci confermano le nostre impressioni, rivelando che sono stati staccati più biglietti ad aprile che a luglio. Gestori di campeggi, albergatori e ristoratori ricorderanno quella di quest’anno come l’estate del “nostro malcontento”. Tutto per colpa del caro traghetto. La stampa regionale (tra parentesi: quest’anno provo più interesse per quella sarda che per quella nazionale che leggo abitualmente) lo denuncia a chiara lettere, con servizi, interviste e commenti. I numeri precisi, però, si sapranno soltanto a fine stagione e i conti, allora, riveleranno un drastico passivo. La chiacchierata con il vispo ragazzo (ormai ci chiamiamo “ragazzi” anche noi “splendidi quarantenni”…) mi fa viaggiare per il Mediterraneo di isola in isola, dalla Sardegna a Cipro, sulle strade del vino, attraversando senza incontrare ostacoli le barriere che ancora contrappongono le “terre divise”. Un sentito ringraziamento e un arrivederci!

Il percorso della mostra su Gaudí si snoda in diverse sedi. La lunga chiusura pomeridiana per la siesta (Alghero non è forse una città catalana?) ci permette di visitare soltanto una tappa, precisamente l’ultima, alloggiata al Museo Diocesano. Ma più che il modellino della Sagrada Família, qui meritano attenzione gli oggetti sacri, le statue e i paramenti che raccontano la storia della città.
Il gigantesco arcangelo Michele, realizzato sul finire del XVII secolo da una bottega sardo-napoletana, ha uno sguardo stupito e braccia da rematore. Ostensori, croci, una stauroteca, navicelle e turiboli: i cartellini svelano provenienze da tutto il bacino mediterraneo. Per secoli il Mare Interno ha visto viaggiare sulle sue acque navi cariche di oggetti sacri e preziosi, in un incrociarsi di rotte nord-sud ed est-ovest. Botteghe trapanesi, genovesi, palermitane, addirittura palestinesi per le croci da tavolo in legno e madreperla, mentre la croce astile della seconda metà del XVI secolo in argento dorato e cesellato con parti fuse, acquemarine, topazi e cristalli di rocca fu realizzata in una bottega di Saragozza. Sul portone d’ingresso un cartello in catalano invita a pensare al rapporto tra i costi e i benefici della cultura…

Tornati a Bosa, dopo la cena al di qua del Temo, il suono amplificato di voci attira la nostra attenzione. A una cinquantina di metri sta recitando un attore bianco vestito, proprio sulla riva del fiume. A prima vista direi che sia Sergio Bini, in arte Bustric, ed effettivamente è lui. Riusciamo a goderci la seconda metà del suo spettacolo Bustric salvato dalle acque, un omaggio – rivisitazione (funambolica, come sempre) della Tempesta scespiriana (leggi la recensione dell’allestimento di Daniele Salvo con Albertazzi, al Teatro Romano di Verona).
E a trovare nuovi spunti per riflettere sull’importanza della cultura, programmaticamente affamata nel tentativo (spesso riuscito) di trasformarci in tanti topini ciechi che si arrabattano in una scatola chiusa. Non dimenticherò la calorosa stretta di mano con l’attore fuori dal suo “camerino” in riva al Temo.
Saul Stucchi
