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Voi siete qui: Europa » Viaggio in Camargue. Terza tappa: tra parchi naturali e tori nell’Arena

24 Settembre 2012

Viaggio in Camargue. Terza tappa: tra parchi naturali e tori nell’Arena

Terza puntata del reportage di Marco Grassano sulla Camargue. La prima è qui, la seconda qui.

Il Parco Ornitologico di Pont de Gau, a quattro chilometri dal Mas des Salicornes, ci dischiude i suoi ricchi tesori sotto un sole che fila tra nubi mosse. Per terra, le pozzanghere del piovasco notturno. È un’area di 60 ettari, estesa tra stagni, isolotti, canneti, salicornieti e prati a “saladelle” (vegetazione variegata e policroma), con un sentiero di 7 chilometri articolato in tre anelli e provvisto di passerelle, di ponticelli e di 16 punti di sosta e osservazione (corredati di pannelli illustrativi). All’inizio, alcune ampie voliere da allevamento, nelle quali uccelli, recuperati con ferite che li inabilitano alla reintroduzione in natura, vengono utilizzati per la riproduzione di esemplari da liberare. Difficile descrivere la complessa bellezza di quest’area, così piena di suggestioni da indurre nei visitatori più sensibili uno stordimento stendhaliano (l’arte della Natura sa essere superiore a quella umana).
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Forse l’emozione maggiore di mia figlia è stata la bella foto scattata a un fenicottero rosa che prendeva il volo (alla sua linea aerodinamica si sono forse ispirati i progettisti del “Concorde”?), ma tra fenicotteri, gru, cavalieri, aironi, anatidi, gabbiani e sterne, cicogne, cigni bianchi e neri, passeriformi, rapaci diurni e notturni… – senza parlare dei mammiferi (castoro e nutria), dei rettili, degli anfibi (ah, lo smalto blu della raganella meridionale!), degli insetti (le sfumature metallizzate delle libellule…), ce n’è abbastanza per ubriacarsi di colori e forme. In questa stagione, bazzicano il Parco anche cavalli e tori, pascolando placidi e lenti. Davvero molti, ma rispettosissimi, i visitatori, come onorevole e giusto riconoscimento a una struttura privata che ha saputo crescere – dal 1948 ad oggi – fino a rappresentare un’attrattiva internazionale e un notevole volano per il turismo.
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Il cielo si fa sereno, con sporadici cirri. Il sole scalda sulla pelle; prima di continuare il giro, mangiamo in uno dei grandi e robusti capanni di legno dai quali si possono osservare, non visti, gli uccelli.
Di sera, verso l’ora del tramonto e dopo, affluisce qualche nube in più. La giornata si incide nella memoria per la sua intensità e luminosità.

Il mattino seguente è sereno, con qualche temporanea e lieve velatura. Il Parco naturale regionale Pont du Rousty si trova quasi ad Arles. In una grande stalla riadattata sono minuziosamente ricostruiti angoli che rappresentano i mestieri e le caratteristiche della civiltà locale, dalle selle per cavalcare agli abiti tradizionali, dalla coltivazione del riso alla pesca, all’allevamento, all’estrazione del sale… Foto d’epoca, montate su apparecchiature che offrono un’illusione di tridimensionalità, ci guidano in vari tratti di paesaggio agricolo. Usciamo e seguiamo il percorso di tre chilometri e mezzo, che inizia costeggiando il Canal du Rousty (realizzato nel 1543) e alcune risaie, per poi arrivare – attraverso un vialetto di tamerici e di curiose acacie dalle foglie piccole e dai grandi baccelli – alla stazione di pompaggio nella quale il canale irriguo della Triquette oltrepassa, con una condotta forzata che sfrutta il principio dei vasi comunicanti, il Rousty. Sull’altra riva, una cospicua azienda agricola con piantagioni di colza, grano, riso (Oryza sativa) e sorgo. Tracce di un paio di ponti – uno in pietra e uno in traversine ferroviarie – divelti dall’alluvione del 1993. Come certi sentimenti ed emozioni, l’acqua è indispensabile alla vita (“corpora non agunt nisi soluta”, “le sostanze non sono attive fuorché in soluzione”, dicevano gli alchimisti), ma è assai problematica da gestire: sì, sentimenti e acqua possono travolgere tutto.
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Proseguiamo consultando cartelli che ci illustrano la “sansouire” – ossia i terreni salati che segnano il passaggio dalle terre coltivate ai pascoli – o le siepi piantate per proteggere dal vento e dal sole (tamerici, pini Pinus pinea, olmi, acacie, cornioli, ulivi di Boemia Eleagnus angustifolia, a volte ciuffi di canne e di atriplex). Il sentiero gira a destra, costeggiando una roggia fitta di vegetazione. Bianche campanule dalle grandi corolle. I rami protesi verso chi cammina sono potati in modo da non infastidire, e l’erba è rasata. Tutto è assolutamente ben tenuto. Per terra, i resti del carapace di un granchietto divorato da qualche uccello. Un apparecchio per tirare su e ingrandire, ad uso delle scolaresche in visita, i girini (“têtards”) e la piccola fauna acquatica. La tartaruga Emys orbicularis è la stessa presente in Maremma. Una passerella in legno si dilunga a offrire la visione del canneto, e un cartello illustra l’utilizzo delle canne recise per i tetti delle “cabanes de gardian” o per le stuoie antivento-antisole o per le lettiere degli animali.
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Segue la palude aperta, che in primavera si costella, come di astri gialli, dei ranuncoli d’acqua. Sulla polvere del sentiero, la carogna mezzo divorata di una biscia dal collare (Natrix natrix). Anche qui un capanno di legno a feritoie consente di osservare, senza disturbarli, i limicoli. Converso in tre lingue con una coppia di maturi svizzeri francesi (che conoscono anche lo spagnolo e l’italiano) citando il loro compatriota scrittore-viaggiatore Nicolas Bouvier e consigliando la visita al Parco ornitologico. Un esempio di “cabane”, col curvo dorso, quasi un abside, volto a fronteggiare il Mistral, è offerto all’esame dei visitatori. Diversi nidi di gruccione (Merops apiaster) sono osservabili nelle ripide pareti di un fossato. Anche questa visita rimane in noi utile e luminosa; le parole non bastano a renderne le tutte le complesse e molteplici sensazioni.

Fotografo il tramonto del 21 giugno dall’alto dell’Arena, dove sono andato a vedere una serie di rapide e divertenti partite a calcetto in cui, a un certo punto, viene immesso l’elemento imprevedibile di una vacchetta che si lancia a inseguire un po’ la palla e un po’ i giocatori e le giocatrici, suscitando grandi risate del pubblico e violenti latrati dei pochi cani presenti (ai quali, per farli tacere, bisogna coprire la testa, così che non possano più vedere quel che accade “in campo”). Il sole scende infuocando di carminio il cielo e ritagliando il crinale sbreccato di una lontana catena montuosa che si allunga livida ad ovest. Col buio la chiesa, illuminata da fari gialli, pare una tozza nave mercantile in navigazione verso le Americhe.
Nella notte arriva il vento di Mistral: come nella poesia di Kenneth White trascritta in epigrafe, spazza il cielo, riempiendolo tutto di azzurro intenso e di sole ardente.

Uscendo dall’albergo andiamo direttamente a “fare il mercato” del venerdì, nel grande parcheggio poco oltre la rotonda, sul lato sinistro della strada che va in paese. L’area, di solito un po’ lugubremente piena di autovetture e di campers, è stamattina vivace di bancarelle colorate. Giriamo a lungo, osservando e ascoltando, poi compriamo qualcosa da mangiare, qualche regalo (sacchetti di lavandina, profumatissime saponette artigianali) e alcune piantine da mettere a dimora nel giardino di Vigana (una lavanda, una lavandina, un rosmarino reptante che cercavamo da tempo). Trovo un banchetto per collezionisti di minerali e mi prendo una pietra di luna, di colore diverso rispetto all’altra acquistata a Grazzano Visconti ma spero ugualmente positiva nel suo contatto con la femminilità. Rispetto ai nostri mercati del nord Italia, popolati di orientali e magrebini, i commercianti sembrano qui decisamente autoctoni, quasi dialettali, se il provenzale lo parlasse ancora qualcuno.

Nel pomeriggio, sotto il sole intenso delle quattro, entriamo nell’Arena per vedere la “course” camarghese, con tori scalpitanti, veloci e furiosi nell’inseguire gli agilissimi “raseteurs” (che compiono evoluzioni di fuga da acrobati circensi) e nel far saltare con le corna, a volte, le assi rossastre del parapetto di protezione.
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Musica della “Carmen” di Bizet (spesso e volentieri la marcia iniziale, e di quando in quando la celebre aria “Toréador, en garde!”) a rimarcare gli eventi clou del confronto (la coccarda presa, o i nastrini strappati con un balzo fulmineo), mentre l’ingresso precipitoso di una nuova bestia dalla porta del “toril” è annunciato con squilli di tromba. La premiazione del miglior toro e del miglior “raseteur”, al centro della plaza, è invece preceduta dall’esecuzione dell’inno provenzale “La coupo santo”, che tutti ascoltano sull’attenti. La melodia mi pare meno bislacca rispetto al primo ascolto, quattordici anni fa, a Cavaillon, e anzi quasi mi commuove. Potenza abbellente del tempo che passa? Rammollimento sentimentale dell’età? Tutto può essere. Alla fine, la “bandita”, in cui gruppi di quattro o cinque butteri accompagnano di corsa, fuori dall’arena e per le vie del paese, una piccola mandria di tori. Molto folcloristico, certo, e per nulla cruento rispetto ai rituali di oltre i Pirenei, ma niente di entusiasmante, almeno per i miei gusti.

Sempre nell’ambito delle “fêtes votives” (a dispetto dell’aggettivo fuorviante, non hanno nulla di religioso, e ricordano piuttosto una patronale: una delle nostre, paesane, di una volta), che già comprendevano la partita con la vacchetta e la corsa dei tori, è il concerto notturno, sulla spiaggia, della “Gipsy Academy”, gruppo gitano locale (è abbastanza straniante sentir cantare da persone nate e cresciute qui uno spagnolo così marcatamente andaluso) che riprende motivi dei Gipsy King, peraltro anche loro di queste parti. Mi fa sorridere la loro versione di “My way” (in realtà, vecchia canzone francese su una malinconica vita di coppia, intitolata “Comme d’habitude”, diventata famosa grazie alla versione americana di Sinatra e di Presley e discutibilmente tradotta in italiano, ahimè, da un Vecchioni in quel momento sonnecchiante…). Veniamo assaliti da plotoni di feroci zanzare del tutto incuranti del salmastro, e dobbiamo battere in ritirata.
Marco Grassano

Didascalie:

  • Fenicottero rosa che spicca il volo
  • In equilibrio nello stagno
  • La “sansouire”
  • Il canneto
  • Toro insegue un “raseteur”

– Prima puntata
– Seconda puntata

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