E dunque questa volta ho deciso di andare. Verso mezzogiorno mi separo dagli altri e poiché la linea 14 della metropolitana è chiusa per lavori, mi affaccio sul boulevard per fermare il primo taxi che transiti da qui con l’insegna luminosa verde.
Il tassista, taciturno e cordiale, è perplesso, dubbioso, riguardo alla destinazione che gli ho comunicato e per sicurezza me la indica sul navigatore, chiedendomene conferma. Sì, il cimitero di Thiais, un periferico cimitero parigino.
Mentre ci muoviamo lentamente nel traffico, mi domando ancora una volta le ragioni e il senso di questo singolare pellegrinaggio. È di certo un atto di omaggio, di devozione ma mi è sempre più chiaro che si tratta anche di un viaggio a ritroso attraverso le epoche della mia esistenza, di un tentativo di ricongiungimento con il sentimento delle cose intenso e incandescente che abitava la mia giovinezza.
Cercando con tenacia in rete nei giorni scorsi, ho trovato l’esatta ubicazione di entrambe le tombe e ne ho trascritto le coordinate sul mio cellulare. Per scrupolo, mi rivolgo comunque alla guardiana all’ingresso, che con grande gentilezza mi fornisce una mappa cartacea sulla quale traccia con la penna il percorso che devo seguire per raggiungere la mia meta prioritaria, la cui approssimativa posizione mi indica con un puntino cerchiato. Divisione 31, linea 12, posto 39.

Mi incammino, unico visitatore, lungo il viale principale. L’organizzazione del luogo è molto semplice, facilmente interpretabile e le divisioni bene indicate. Quando sono nei pressi della divisione 31, mi accorgo che un addetto in divisa, un uomo di colore anziano, che procede lentamente, probabilmente a causa degli acciacchi dell’età, mi sta venendo incontro, sorridendomi già da lontano. Quando è ormai a pochi passi da me, valuto che il suo sorriso esprime un’accoglienza, una cordialità e una dolcezza rare, difficilmente dimenticabili.
Buongiorno, so che lei sta cercando Paul Celan, mi dice, pronunciando il nome alla tedesca fatta eccezione per la C dolce alla francese, venga. Mi informa che sa dove si trova la tomba ma per ottenerne le coordinate certe, chiede conferma via radio. Quando entra nel quadrato erboso disseminato di lapidi, faccio per seguirlo ma mi invita ad aspettare, a non stancarmi, provvede lui a trovare ciò che sto cercando.
Lo osservo camminare contando con un gesto della mano destra prima le file e poi le posizioni. Eccola, l’ha trovata, mi chiama. Lo raggiungo e lo ringrazio quattro o cinque volte con tutto il calore possibile, abbassando anche un poco la testa in un accenno di inchino ma il suo compito non è ancora terminato.
Si fa porgere la mappa e con una grafia ricercata e antica compila gli spazi sul retro riservati all’oggetto della ricerca, così che mi resti una traccia concreta della mia venuta qui. Quando mi restituisce il foglio, gli stringo la mano e manteniamo questo contatto fisico per qualche secondo e tutto questo mi induce a chiedermi che cosa, in mezzo all’orrore che quotidianamente ci arriva da ogni angolo del mondo, vicino o lontano, consenta a due uomini sconosciuti di incontrarsi con questa benevolenza, con questa immediata e spontanea simpatia.
Appena ci congediamo, mi salta invece in mente lo stupido pensiero che se fossimo in un film blockbuster americano, invece che in una reale e fresca giornata estiva parigina, l’anziano custode sarebbe un angelo materializzatosi per l’occasione.
Adesso sono da solo davanti alla semplice lastra scura, sulla quale sono incisi tre nomi. Dall’alto in basso, secondo la cronologia della scomparsa: il primogenito François, morto dopo pochi giorni di vita; il grande ed estremo poeta da me tanto amato e che ha toccato nel profondo la mia persona; la moglie Gisèle. Secondo l’usanza ebraica, sulla lastra sono stati posati dei sassi, che qualcuno ha ordinatamente disposto in un cerchio che racchiude i nomi, come a formare una corona.
So bene che lì sotto ci sono soltanto dei frammenti di ossa e dispongo di ben poche illusioni e consolazioni eppure l’emozione è enorme. Può sembrare irragionevole ma questo mio semplice stare lì davanti assume il senso e la forma di un incontro.
Nei giorni scorsi ho ricapitolato la vicenda della mia relazione con la poesia di Celan: la scoperta grazie a un capitolo di Danubio di Claudio Magris, la prima lettura dei suoi versi in un’antologia degli ultimi suoi libri trovata nella biblioteca comunale, lettura davvero folgorante e che ha anche influito sui miei tentativi di scrittura, la frequentazioni negli anni dell’intera opera e le innumerevoli, frequenti riletture ma adesso c’è soltanto il fragile e intenso presente di due esseri umani uno di fronte all’altro.
Scatto con il telefono delle fotografie che però non mi convincono, torno indietro e ne scatto di migliori, mi allontano ma poi ritorno un’altra volta perché ho bisogno e desiderio di restare ancora un po’ davanti a quel nome.
Prima di congedarmi definitivamente, provo a immaginare quegli ultimi istanti dell’annegamento volontario nella Senna e poiché la malattia ha stretto negli ultimi anni una morsa sulla mia famiglia, nella moltitudine di versi che affiorano nella mia mente scelgo di recitare, come una preghiera, i seguenti
TIRA VIA, dolore,
non colpirla in pieno viso,
vedi, il tuo grumo di sabbia,
di rimediarlo alla meglio
nel biancore che è lì accanto.
Ho imparato dal custode come devo contare per cui la tomba di Joseph Roth decido di cercarla da solo. Ne individuo agevolmente la posizione ma inizialmente non riesco a vederla, perché un cipresso le è cresciuto capricciosamente davanti, ponendola in ombra e occultandola parzialmente alla vista. Anche l’iscrizione dorata, sostituita cinquantacinque anni fa, risulta a stento leggibile.
Trovo crudele questa supplementare dose di oblio verso uno scrittore che ha raccontato la dissoluzione di un mondo e che insieme a questo è scomparso, distruggendosi con l’alcol. Lo scrittore che ha lucidamente profetizzato l’avvento dell’inferno sulla terra e che morendo nella primavera del 1939 non ne ha potuto vedere l’orrore compiuto. Hai avuto una morte dolce e lieve come quella del Santo Bevitore Andreas Kartak sotto lo sguardo di Santa Teresa in quei tuoi ultimi giorni in preda al delirium tremens e alla polmonite nell’ospedale dei poveri o ti è stata negata anche quella?
È tempo di tornare dagli altri. Guardo l’orario sul display del mio telefono e mi rendo conto con sorpresa che mi sono trattenuto in questo luogo molto più a lungo di quanto pensassi. Non è però tanto la durata della mia permanenza a stupirmi bensì il senso di pace, per me rarissimo, che mi porto dentro ripercorrendo il viale principale verso l’uscita. Come se avessi compiuto un gesto doveroso e necessario, per il quale sono stato ripagato.
Ho anche una grande fame, una fame da ragazzo e vincendo un sottile e spontaneo disgusto mi fermo a mangiare qualcosa nel fast food assurdamente collocato proprio davanti al cimitero.
Giovanni Granatelli