Quattordicesima e ultima puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Colazione nel comodissimo Bagel & beans. Rientriamo in camera a terminare i bagagli. Scendiamo per l’ultima volta, con una punta di malinconia, la rampa di scale. Uno sguardo di addio al garage. Lasciamo la chiave nella cassettina a combinazione. Usciamo in strada calpestando il pavé sconnesso, muffito e sporco del passaggio fra le case, dove, di notte, risuonavano voci incomprensibili e il ronzio dei condizionatori, sempre accesi.
Nel tratto di canale attiguo, su una piccola chiatta grigia, un palombaro viene predisposto per l’immersione, mentre un paio di curiosi (non ancora pensionati, a giudicare dall’età) osservano le manovre. È probabile che ogni tanto si renda necessario effettuare lavori di pulizia, se non proprio di dragaggio. Mi sa che anche qui, come a Milano, la gente abbia il vizio di buttare nei navigli qualsiasi cosa.

Riusciamo a prendere il treno delle 9.40, facendo i biglietti all’erogatore automatico della stazione. Ci sediamo sul lato destro della carrozza. Procediamo lungo una vasta pianura anfibia, uniforme, diffusamente verde. Vacche pezzate, in gran numero. Villaggi con qualcosa, nell’aspetto, del New England. Filari di betulle, in corrispondenza delle rogge. Pochissimi, per l’intero tragitto, gli orticelli.
Per fortuna, non si riscontra da nessuna parte la presenza invasiva dell’ailanto. In piena campagna, un lontano ponte strallato ci ricorda il Meyer di Alessandria. Aree boscose si alternano ai coltivi. Dopo Zwolle, un sentiero, battuto da un camminatore solitario, bordeggia un folto di vegetazione spontanea.

Il viaggio si arresta nella cittadina di Eempolis, forse perché qui termina la tratta ferroviaria di competenza della società Arriva. Scendiamo dal convoglio e attendiamo la coincidenza per Amsterdam, prevista fra pochi minuti. La stazione è enorme e – seppure di mattoni a vista – ultramoderna, in stile centro commerciale. Si tratta, presumo, di uno snodo importante.
Corriamo ora verso il capoluogo. Campi, insediamenti abitativi, una fascia naturaliforme. Hilversum. Ancora boschi. Bussum. Attraversiamo, nel bel mezzo, un’ampia area umida. Altri coltivi. I sobborghi. Una stazione periferica. La Centrale.
Abbiamo acquistato, in rete, i biglietti per il Rijksmuseum. Lasciamo i trolleys al deposito bagagli. Usciamo sulla spianata anteriore, per raggiungere la metropolitana. Mi assale l’intensa emozione che sempre provo ritrovando i luoghi già visitati: un piacere particolare, più dolce, più luminoso, più rassicurante rispetto alla scoperta di posti nuovi. Forse, come ha scritto Paolo Ciampi, il vero senso del viaggiare sta nei ritorni.
Le molteplici, luccicanti scale mobili ci conducono in profondità. Ampi spazi. Sfarzo di luci, di cromature e di superfici rivestite, in ceramica o pietra. Dobbiamo scendere alla seconda fermata della linea Zuid. Solo un gruppo di passeggeri spagnoli indossa la mascherina. Il percorso richiede pochi minuti. Riemergiamo accanto a un canale stretto fra le case. Attraversiamo la via di fronte, percorsa dai tram. La costeggia un naviglio più grande. Prendiamo verso destra, mantenendoci sul marciapiede. Al primo ponte, svoltiamo verso il vicinissimo museo.

È ancora presto, per la nostra prenotazione. Aggiriamo l’edificio – un palazzo nel classico stile nordico – in cerca di un localino dove mangiare. Arriviamo alla piazza ubicata sul lato opposto, divisa da un’enorme fontana. Due piccole costruzioni, gemelle e speculari: una accoglie il Museum Shop e l’altra il Cobra Café Bar. Ci accomodiamo ai tavolini esterni di quest’ultimo, posti su una pedana di assicelle e riparati da ombrelloni. Fa abbastanza caldo. Ordiniamo due insalatone, senza ingredienti animali ma comunque gustose. Camerieri giovani, di ambo i sessi, in maglietta nera. Alla fine, con calma, ci accostiamo alla cassa e paghiamo.
L’entrata dell’esposizione è proprio qui davanti. Per arrivarci, rasentiamo le ricche geometrie del front garden (voortuin, in lingua locale), cinto da una massiccia inferriata. Superiamo l’arco di destra e ci ritroviamo sotto il vasto androne, echeggiante di musica dal vivo. Alla biglietteria, pubblico in coda. Disponendo già dei titoli di accesso, ci rivolgiamo a uno dei custodi, che ci fa passare oltre la porta girevole da cui si raggiungono gli spazi interni.
Eseguiamo la verifica allo sportello, lasciamo le borse nelle apposite cassette di sicurezza e iniziamo il percorso. Vi si può contemplare un insieme stupefacente di opere che, partendo dagli oggetti di arredamento più raffinati, si espande a dismisura in una vertigine di capolavori figurativi, prodotti durante i Secoli d’Oro dell’arte olandese ed europea
Voglio menzionare un po’ delle cose viste, senza stabilire una gerarchia. San Lorenzo arrostito sulla graticola (spedisco la foto a un collega gastronomo che, prima di partire, mi aveva avuto ospite in un asado argentino da lui imbandito). Un quadro in stile Bosch, da cui penso siano derivate certe fantasie di Salvador Dalì. Libri manoscritti, magnificamente miniati. San Giovanni decollato (anche la mia, di testa, era stata pretesa e ottenuta da una Salomè).
Una Maja desnuda indigena. Un austero personaggio locale, che però indossa un basco dei Pirenei. Una Maja vestida, pienotta e graziosa. Una serie di vetrofanie. Ritratti, maschili e femminili, alcuni dei quali somiglianti a personaggi della mia zona o dell’ambiente di lavoro, attuale e preterito. Un gruppo di persone in festa, ma dipinto in toni foschi. La raffigurazione di un’opera teatrale su un religioso che si spupazza la moglie di qualcun altro (mi viene da soprannominarlo Don Chiudendone Saltafossi).
Piatti con la mappa delle varie regioni nederlandesi. Paesaggi di struggente languore crepuscolare. Un gattino, dipinto quasi in ogni singolo pelo. Una dama mondana. Una dama devota. Una fanciulla che lavora a maglia su una duna oceanica. Un quartetto di cavalieri (la donna monta all’amazzone) mentre scende verso la spiaggia immensa. La prefigurazione ottocentesca dell’Hopper notturno. Una scena urbana invernale. L’unico autoritratto di Van Gogh rimasto in questa sede.

Scorci dei canali di Amsterdam. Scene di interni, da cui il primo Van Gogh è stato influenzato. Un quadro che rappresenta un artista mentre esibisce all’osservatore il proprio quadro: metatesto iconico. Scene riferite alla caccia o alla cacciagione. Un gentiluomo brizzolato, i cui lunghi capelli paiono perdersi in nuvolette di fumo. Una pittrice dall’intenso sguardo fiammingo. La biblioteca del palazzo, imponente. La Battaglia di Medway: da non confondere con quella di Midway, posteriore di quasi tre secoli.
Un salone di tele enormi, ancor più del Quarto Stato – diciamo che non sono oggetti che si possano tenere in cucina. Una Strage degli Innocenti tra violenza ed erotismo. Il dio Pan. Un paesaggio innevato alla Brueghel, ma del pittore Hendrick Avercamp (1585-1634). Una pattuglia di Viaggiatori a riposo.
All’ultimo piano, opere del Novecento. Il pittore Armando, che ricorda, nella densa materialità, il nostro Carletto Pace. Eduardo Paolozzi, finto italiano d’Inghilterra. Una scultura che mi fa pensare alla testa del mostro Alien. Altri manufatti di gusto indefinibile.
Facciamo un giro nel Museum Shop. Sugli scaffali, la stessa chincaglieria pacchiana – usurpata al genio del povero Vincent – che quattro anni fa ci aveva indotto un certo ironico fastidio. Compriamo ugualmente degli orecchini e una matita.
A pochi passi, sotto gli alberelli della piazza inghiaiata, chioschi alimentari: Food Club e Come hungry leave happy. Offrono entrambi, meritoriamente, l’opzione Veggie. Acquistiamo qualcosa da bere e ci fermiamo sotto il gazebo prospiciente, su sedie di metallo grigie, appoggiandoci a un tavolino col ripiano di abete.
Torniamo alla metro. In stazione, recuperiamo i bagagli e prendiamo il treno per l’aeroporto.
Superiamo i successivi controlli. Ci sediamo ad attendere il nostro volo nell’area in cui avevamo fatto colazione al primo arrivo. Gli squadrati divanetti verdi, rivestiti di pelle ecologica, sono abbastanza duri. Accanto a noi, due grossolane teenagers britanne: capelli scuri, dal taglio virile; abiti grigio-neri; gambe muscolose scoperte; scarpe con la suola incredibilmente spessa. Smanettano sul cellulare. Dubito possano essere interessate alle poesie di Heaney, che io invece riprendo in mano.
L’aereo partirà con un’ora di ritardo. Ceniamo al limitrofo Urban food market, scegliendo l’ormai consueto, gradevole piatto vegano.
Ci mettiamo in fila nel corridoio. Effettuiamo l’imbarco. Il velivolo decolla. Mentre vira per portarsi in direzione dell’Italia, vediamo, dall’oblò, l’Amsterdam notturna: dispiegata in tondo, a segmenti, come una ragnatela di luci.
HET EINDE
Marco Grassano
Quattordicesima parte. Fine
Didascalia:
Vincent van Gogh
Autoritratto, 1887
Rijksmuseum, Amsterdam
Dono di F.W.M., Baronessa Bonger-van der Borch van Verwolde, Almen