Nella casa mi accoglie sempre la stessa ragazza. Esita quasi. Conosco troppo dello scrittore per essere uno capitato lì per caso. No, decisamente non ho l’aspetto di un nerd della letteratura, né quello di un amante dei fantasy, o di quell’invisibile realismo magico, di cui il padrone di casa è uno dei maestri incondizionati. Se le dicessi il nome (di una delle due scrittrici) che mi ha portato lì, la ragazza mi liquiderebbe con una qualche smorfia, che ovviamente non capirei.
L’ingresso ha l’odore d’acero caldo e dolciastro. Di legno ce n’è ovunque, noto. Dall’orologio che batte alle cornici, al pavimento ben lucidato, agli scalini della scala, che porta alle stanze di sopra. A quest’odore solido, che frastorna sempre un po’, si sostituisce lento ‒ ma ben individuabile ‒ quello della vernice dei dipinti, che lo scrittore ha comprato e spedito qui, da paesi lontani.
Sono quadri di autori degli anni Sessanta che amano l’acrilico, spruzzano colore ruvido sulla tela, puntano al materico senza dimenticare l’odore. Così l’odore dei quadri si mescola a quello logoro dei tappeti, sui quali aspetto che la descrizione dell’autoguida mi permetta di entrare nel soggiorno.
Qui mi assale una stagnante vegetazione, divani dalla pelle logora, altro legno, il caminetto spento. E, sì, l’odore di un ipotetico sigaro che lui, lo scrittore, si concedeva a sera, mentre leggeva il giornale, sulla poltrona azzurrognola, all’angolo.
Nella luce che ora quasi mi acceca, rimango a sentire ciò che rimane. Di un sigaro, dell’incenso cinese, della cenere del camino. E del legno. Ma non di fiori. Nessuno penserebbe mai di portare qui dei fiori. Un potus, alcune piante grasse sono più che sufficienti. Lo scrittore non li gradirebbe. Sì, ci sono i colori dei quadri, degli oggetti tribali, dei piccoli tapetti, delle bamboline ricordo, ma non di fiori.
A dire il vero in Islanda non ho visto fiori di alcun tipo. Candele accese nelle case, quelle sì; fiori, no. Come se gli abitanti vivessero in una severità che fa di una rachitica pianta di basilico, dal profumo assordante ‒ che ho scovato nella cucina ‒ l’unico possibile orpello. Anche per la casa di uno scrittore, vincitore del Nobel.
La ragazza risponde alle mie curiosità, esista quando le dico che lo scrittore non è nato qui vicino, come sostiene, ma in città, che è anche capitale dell’isola. Consulta dei fogli, ammette che, sì, lo scrittore è nato nella via principale della città. Ma che, a quei tempi, non era più di una baracca, aggiunge. Come per rivendicare qualcosa.
La ragazza dai capelli di lino e dal trucco leggero alla vaniglia si porta dietro l’odore opaco del caffè solubile, il retrogusto di cannella di uno di quei dolci troppo zuccherati dei discount, di zenzero e di sigarette fumate poggiando uno degli anfibi al muro. Mentre, con svagata incertezza, ha guardato la cicca finire tra l’erbaccia.
L’odore di pioggia e di vento la ragazza lo porta con sé da anni. Qui la pioggia sa di fango, ha qualcosa di oleoso e di leggero, simile ai funghi appena tolti dalla busta. Il vento è un odore che tutti gli abitanti del territorio non sanno più individuare. Perché esposti fin dalla nascita. È un odore aguzzo d’uccelli che, presto, planano dalla prima fronda. Pronti, forse, a fare del male anche agli umani. Ignari.
La ragazza capisce che ho letto alcuni dei romanzi più importanti dello scrittore. Li elenco nella mia mente: Gente indipendente, L’onore della casa e Il concerto dei pesci, Il paradiso ritrovato (tutti tradotti in italiano da Iperborea, ndr.). Di solito storie di donne inquiete, stuprate e abbandonate, costrette a “estirpare” per un’intera vita le loro colpe. O gente pronta a perdersi. Come se la gente del posto non potesse fare altro che perdersi, come il protagonista di Sotto il ghiacciaio. Come, del resto, vorrei farei io una volta giunto su quest’isola.
La mia carnagione troppo chiara confonde la ragazza. Potrei essere un eccentrico dell’est. Sì, questo alla fine pensa. E si rasserena. Perché si sa che, in qualunque paese, quelli dell’Est sono eccentrici e pedanti, umorali e persi nei dettagli.
Al piano di sopra mi attendono altri quadri, altre fotografie e i libri. Polverosi, ordinati secondo un’idea che non condivido. Generalmente rilegati. Scorro i nomi degli autori. Alcuni conosciuti, altri meno. Altri mai tradotti in italiano.
Il verde militare delle pareti fa a pugni con l’odore di limone dei capelli dello scrittore, il cui viso mi si profila sempre più vicino. Ha gli occhiali spessi, il naso che sembra un bruco in mezzo alla faccia e quell’espressione sorniona che ritrovo solo nelle sue ultime fotografie, che mi sembra dire di non prendere troppo sul serio quello che scrive. Lui per primo e i suoi lettori ‒ prima di me ‒ non l’hanno mai fatto.
Noto come la severità del pianista, che è stato a diciassette anni, si sia dissolta nel tempo. Lo scrittore lo sento camminare col passo traballante di un novantaseienne. Del novantaseienne che è stato, quando è morto. Sento il suo respiro profondo, intento a leggere, seduto in poltrona uno di quei libri su un eterno passato che chiamiamo Medioevo.
Il profumo di limone dei suoi capelli sta per sbiadirsi e confondersi nell’odore secco della sua pelle, mentre un odore acido di muschio mi riporta un viso a me familiare.
Ho il tempo di guardare fuori, verso il monte laggiù. La casa e i suoi odori, la ragazza e il monte, forse, li ho solo immaginati. Dal video dell’ennesimo Youtuber vedo che non ci sono montagne a bloccare lo sguardo. Mi sembra che la pioggia sia molto diversa da quella romana: sempre troppo timida. Sempre troppo pigra. Sempre sul punto di vacillare sotto il suo stesso peso.
Le parole strascicate dello Youtuber ‒ un americano, questa volta ‒ mi riportano indietro. La casa di Halldór Laxness per me resta un segreto. Un segno lontano su un’isola fatta d’azzurro.
Claudio Cherin