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Voi siete qui: Europa » Monaco di Baviera e Dachau: splendori e miserie della storia

13 Gennaio 2021 Scritto da Laura Baldo

Monaco di Baviera e Dachau: splendori e miserie della storia

Con questo articolo inizia il reportage di Laura Baldo sui campi di concentramento della Baviera.

Questo viaggio risale a inizio aprile del 2019 e, come altri, è stato motivato dal desiderio di visitare i luoghi che descrivo nei miei romanzi, e magari di imparare qualcosa di nuovo.

Il mio itinerario parte da Monaco di Baviera, dove intendevo solo vedere di persona alcune strade, ma dal momento che ero lì non ho potuto fare a meno di visitare tutto il centro: Marienplatz, il Municipio, la chiesa di S. Michele, la Loggia dei marescialli, la Siegestor, l’Isartor — vicino a cui negli anni Venti c’era la sede del partito nazista — il luogo dove sorgeva la Bürgerbräukeller (la birreria da cui nel 1923 partì il tentato putsch di Hitler), l’Angelo della pace, i Giardini Inglesi, la Residenz, il Teatro Nazionale.

Insomma, è una città splendida e piena di cose da vedere e scorci affascinanti. E nemmeno posso evitare di andare in una delle molte birrerie famose: Augustiner, dove ordino purè, cavoli stufati e würstel, accompagnati dalla birra più buona che abbia mai assaggiato (migliore, per me, di quella della più nota concorrente).

Il campo di Dachau

Il secondo giorno mi avanza qualche ora non programmata, e bisogna pur sfruttarla. Guardo quindi i collegamenti con Dachau: c’è la linea di superficie S2, che impiega circa 20 minuti. Dal piazzale della stazione di Dachau parte poi il bus 726 che porta fin sulla soglia del Memoriale. È domenica mattina e c’è moltissima gente.

Alla biglietteria vedo molti prendere l’audioguida, ma quando la chiedo in italiano mi rispondono che non c’è (ammettiamolo, mi indispone un po’ che ci sia in cinese e non in italiano, visto che abito a neanche 300 chilometri). L’impiegato è comunque gentile, mi dà una mappa e mi spiega a gesti dove si entra (il posto è enorme e, avendo tempo, ci sono anche dei sentieri extra che portano a vari monumenti o resti della guerra nei dintorni).

Il cancello d'ingresso del campo di Dachau

L’entrata vera e propria al campo di concentramento è attraverso il cancello di ferro originale, con la famigerata scritta Arbeit macht frei — “Il lavoro rende liberi”. Forse non tutti lo sanno, ma questa è stata la prima, e poi si è deciso di riportarla anche all’ingresso di altri lager.

Dachau è stato il primo lager nazista, aperto nel 1933, e ha fatto da modello per quelli successivi. Tutto intorno c’erano aziende agricole e fabbriche — qui si producevano ad esempio le porcellane di Allach, che spesso Himmler regalava in segno di favore, come le Julleuchter, o lanterne del solstizio — in cui erano impiegati i prigionieri, oltre a terreni di esercitazione per le SS e a una scuola per ufficiali.

Il Museo

All’interno del campo si inizia la visita dal grande edificio a ferro di cavallo di fianco alla piazza dell’appello, che ospitava l’amministrazione, e in cui ora c’è il Museo.

La piazza dell'appello del campo di Dachau

La prima sala è una sorta di introduzione: una mostra sugli anni ’20-’30, quelli dell’ascesa del partito nazista. Per me, che scrivo di quegli anni, ci sono cose molto interessanti: quotidiani dell’epoca come il numero del Volkischer Beobachter con l’articolo sull’incendio del Reichstag, manifestini satirici di propaganda, alcuni davvero fantasiosi, banconote da 10 miliardi di marchi del 1923.

Poi si passa alla sezione con le testimonianze dei prigionieri: gli schedari, gli effetti personali recuperati, ma anche oggetti curiosi, che non sapevo nemmeno esistessero all’epoca, come una giornalino di parole crociate austriaco, un calendarietto tascabile, un’agendina di indirizzi alfabetica appartenuta a un prigioniero italiano.

A colpirmi in modo particolare, nonostante l’aspetto dimesso, sono dei sacchettini di carta che servivano a contenere i beni dei prigionieri. In caso di rilascio tutto veniva regolarmente restituito (in caso di morte, alla famiglia). Cioè, potevi anche rischiare la morte ogni giorno per le malattie, il cibo troppo scarso e il resto, potevi uscire con qualche dente o qualche dito in meno, o con problemi mentali permanenti, ma — cadesse il mondo — se avevi due marchi e un anellino al momento dell’arresto, venivano accuratamente registrati e sorvegliati e ti venivano restituiti intatti al rilascio. Forse è una cosa mia, ma c’è qualcosa di disturbante in tutto ciò, mi pone delle domande a cui è impossibile ormai rispondere.

Dachau: tabellone dei simboli dei prigionieri

Molto interessanti anche le testimonianze del campo: il tabellone con il colore dei vari triangoli assegnati ai prigionieri (che è stato preso a modello dagli altri lager, quindi facendo ricerche online lo si ritrova spesso), l’orario con le varie attività della giornata, reperti originali come armadietti, divise, cappelli, scarpe, utensili per mangiare, arnesi da barba, strumenti medici.

Ci sono anche cose curiose e interessanti come i passatempi dei detenuti: scacchiere intagliate da scarti di legno, carte da gioco disegnate a mano, libri originali della biblioteca (eh, sì, nel campo c’era una biblioteca, e i prigionieri potevano fare la tessera; che poi avessero il tempo o la forza per leggere è un altro discorso). Nella stanza seguente, con un passaggio un po’ improvviso, che aumenta il senso di straniamento, ci sono gli strumenti di tortura: fruste, manganelli, cavalletti. Si esce dal museo con la testa confusa e affollata di domande che resteranno dove sono.

Dachau: vista d'insieme

Fuori, nel perimetro del campo, ci sono alcune torrette di guardia originali e le fondamenta dei vari Block — una trentina, ognuno pensato per circa 800 detenuti. Due di essi sono stati ricostruiti, e in uno si può vedere com’era fatto un dormitorio e la sala comune coi tavoli e gli armadietti.

Sala comune di una baracca di Dachau

Proseguendo fino in fondo alle due file parallele di fondamenta di baracche si trovano alcune cappelle votive, e attraversando il fossato e parte del reticolato ricostruito, si arriva al piccolo edificio coi forni crematori. Dachau non era un campo di sterminio, ma le morti quotidiane, su decine di migliaia di prigionieri, erano tante, e servivano ben tre forni.

La recinzione del campo di Dachau

Come detto in precedenza, qui intorno c’è un sentiero della memoria, che volendo riporta a piedi fino alla stazione, ma siccome io ho sempre i minuti contati, finita la visita (che già mi ha richiesto almeno due ore, più del previsto), torno a prendere il bus e il treno.

Documentarsi sul Nazismo

A Monaco mi mancano da vedere le gallerie d’arte, ma dato il tempo tirato ne scelgo una sola: l’Alte Pinakothek, con capolavori del tardo medioevo, del Rinascimento e del Barocco (Raffaello, Leonardo, Guido Reni, Lorenzo Lotto, Rembrandt, Rubens, Boucher e molti altri). Insomma, se passate da Monaco una visita è dovuta, e, di nuovo, mi spiace di non avere più tempo e poter visitare anche la Neue Pinakothek, con l’arte dei secoli successivi.

L’ultima tappa di oggi, e intanto si è fatta quasi notte, è il Centro di Documentazione sul Nazismo, in Briennerstrasse — a due passi da Königsplatz. È situato in un edificio nuovo costruito dove sorgeva la Braunes Haus, sede del partito nazista dal 1933, rasa poi al suolo dalle bombe. Sono invece rimasti, e ancora usati, i due edifici amministrativi gemelli lì accanto, dove si tenne la Conferenza di Monaco nel 1938.

Ho grandi aspettative su questo museo, aperto nel 2015, ma il primo impatto non mi fa impazzire: è tutto ultramoderno, ovunque ci sono bacheche, monitor e schermi interattivi. Qui trovo l’audioguida in italiano, ma alla fine non mi serve a granché se non a orientarmi sui vari piani.

Di concreto da vedere, come dicevo, c’è molto poco. Sono solo poster, pannelli, mappe, bacheche con fotocopie di ritagli di giornale. In pratica si racconta la storia della città dagli anni Venti in poi, l’ascesa del nazismo e altro.

Ci sono alcune curiosità, come le dieci regole della perfetta ragazza tedesca (la 6 raccomanda di chiedere al futuro marito chi sono i suoi antenati, la 8 di sposarsi solo per amore); la foto di un matrimonio “postumo” con l’elmetto a rappresentare lo sposo morto, accanto alla sposa vestita di nero; l’assurdamente complicato schema razziale della Leggi di Norimberga — che somiglia un po’ al modo in cui ti spiegano le frazioni a scuola. Ma a parte ciò, non è che mi prenda più di tanto, forse perché molte delle informazioni le conoscevo già; magari per chi non ne sa niente è più interessante.

Schema delle leggi razziali di Norimberga

Le mie tappe a Monaco finiscono qui (più che altro perché ormai i musei sono chiusi), quindi dopo aver cenato — stavolta alla Löwenbräu, con panino gigante, patatine e birra — torno in hotel. Domani mi aspetta un viaggio di diverse ore per arrivare al memoriale del campo di concentramento che più mi preme visitare: Flossenbürg.

Laura Baldo

Prima puntata – segue.

Didascalie:

  1. Il cancello d’ingresso di Dachau
  2. La piazza dell’appello, sullo sfondo l’edificio d’ingresso e quello dell’amministrazione, ora museo
  3. Il tabellone originale con i colori dei vari triangoli per i prigionieri
  4. La sala comune di una delle baracche ricostruite
  5. Vista d’insieme con le fondamenta dei vari block (il cui numero è indicato su un cippo)
  6. La recinzione e sullo sfondo una delle torri di guardia rimaste
  7. Monaco: il moderno Centro di documentazione sul nazismo (sulla destra), e uno dei due edifici gemelli di epoca nazista, dove si firmò l’accordo di Monaco nel 1938
  8. Lo schema delle leggi razziali di Norimberga, che spiega con chi si può sposarsi e con chi no, a seconda della frazione di sangue ebraico

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