Quarta puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Lasciamo le bici – insieme alle altre che già vi si trovano – nella piccola, apposita rimessa accanto all’entrata, incatenandole tra loro e appoggiandole alla parete. Domani non pensiamo proprio di usarle: non ce la faremmo. Andremo magari, coi mezzi pubblici, a visitare una delle isole frisone…
In camera, ci facciamo la doccia e ci riposiamo sul letto, leggendo qualcosa. Ho con me una scelta di brani dell’Odissea tradotta da T. E. Lawrence. Lo stile teso e lampeggiante di questa versione, più che “l’inclito verso” del testo omerico, mi pare aver segnato la scrittura di Nikos Kazanzakis nella sua mastodontica continuazione moderna.
Vorremmo cenare presto, come usa in Olanda, e senza allontanarci troppo da casa. Al massimo, dopo aver mangiato faremo una passeggiata digestiva qui intorno.
Percorriamo, in direzione Nord, l’intera nostra via, tutta vetrine: di abbigliamento, di articoli per la casa, di parrucchieri, di proposte gastronomiche. Ovviamente, non ci attirano né la Trattoria italiana né, poco oltre, il ristorante messicano Yucatán, che espone una bandiera nazionale quasi identica alla nostra.

Arriviamo in un ampio viale perpendicolare: quello già incontrato stamattina. Subito sull’angolo di fronte, ci convince la terrazza, protetta da ombrelloni, del Grand Café De Walrus. Ci sediamo a ridosso del bordo esterno, a un tavolino di legno smaltato col flatting, su poltroncine di giunco e sparto intrecciato simili, nella foggia, alle nostre di Vigana.
Una cameriera ci porge i menù: tavolette di legno cui sono fissate, con anelli da raccoglitore di documenti, le variopinte pagine. Scegliamo un gustoso e sostanzioso piatto vegano, con contorno di orzo. Ci servono, spontaneamente, anche una ciotola di insalata, una di salse per i crostini di pane e una di squisite patatine fritte locali.
Ci portiamo nella vicina piazzetta, notata cenando, e ci accomodiamo sul sedile di mogano che circonda una fontana asciutta, dominata, al centro, dalla statua bronzea di Willem Lodevijk Graf van Nassau (1560-1620), come precisa l’iscrizione scolpita sul piedistallo in marmo rosso. Al personaggio viene attribuita, assieme ad altri epiteti linguisticamente impenetrabili, la qualifica di Vader van zun volk, che intuiamo significare “padre del suo popolo”.

Telefoniamo a casa, per raccontare la giornata. Alzando gli occhi all’edificio in mattoni che abbiamo di fronte, osserviamo, affisse nelle nicchie di due finestre cieche, la gigantesca poesia (anonima) Toekomstritme e la sua traduzione inglese Futurhytm (o viceversa: non ci è ben chiaro quale sia l’originale). In realtà, come appuriamo facilmente, si tratta di una canzone (in inglese, appunto) del collettivo di artisti di Amsterdam Supernature. Mai sentiti. Alle nostre spalle, i tre padiglioni dell’elegante Hotel Restaurant Stadhouderlijk Hof e della sua “cantina di palazzo” (Hofkelder) dal portone arcuato.
Continuiamo in questa direzione. Un altro slargo, con un frondoso tiglio nell’aiuola al centro. Vi ha inizio una via di casette in laterizi a vista, selciata a lisca di pesce (come del resto la nostra, e un po’ tutte quelle pedonali e ciclabili del centro) e leggermente in curva. La imbocchiamo. Le quattro vetrine del negozio di antiquariato P. Gerbenzon & Zonen. Chissà se si tratta di una famiglia di origine veneta o, più semplicemente, di un cognome olandese patronimico (zon vuol dire figlio). Il ristorante di “bistecche e altro” Spiezz: denominazione, invece, dall’aria partenopea…
Confluiamo nel lungonaviglio alberato (così al crepuscolo, le sue piante si direbbero lecci, in varie fasi di sviluppo) che si dipana verso ovest e iniziamo a percorrerlo. Un susseguirsi di dehors di ristoranti; alcuni di essi dispongono di tavolini anche a bordo di chiatte arrembate alla riva. La grande libreria Van der Velde: verremo a farci un giro, quando sarà aperta. In fondo, il busto di un certo Anne Vondeling – nome curioso, al nostro orecchio, per un uomo.

Per tornare al nostro alloggio, superiamo il canale attraversando uno dei periodici ponti a forma di piazzola convessa. Tantissime bici parcheggiate. Una spazzatrice, guidata da un addetto, sta ripulendo la pavimentazione. In margine al valico successivo, la statua in bronzo di un cavallo – senza nessuna didascalia esplicativa – attira, chissà perché, turisti bramosi di scattarsi selfie. Rivolgendomi alla famiglia anglofona che vi traffica attorno in questo momento, cito la celeberrima battuta del Riccardo III shakespeariano: “My kingdom for a horse!”. Non so come l’abbiano presa.
Isolata in riva all’acqua, un’atteggiata costruzione tra il gotico e l’art nouveau ospita un bancomat e altre indistinguibili attività.

Subito dopo, affiancati, due chioschetti mobili, probabilmente attivi solo nel fine settimana: Snacks from China e Belgische frietjes. Quest’ultimo mi desta un moto di acuta tristezza.
In pochi passi, siamo nella nostra via e saliamo in camera.
Marco Grassano
Quarta parte. Segue