Dodicesima puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Per la colazione, Ester ha scovato in rete un “locale amico” più vicino. Si tratta del Bagel & Beans, a forse un centinaio di metri da casa, nel punto in cui il canale percorso ieri sera converge con uno maggiore sulla cui riva sono in corso lavori indefinibili.
Vetrina pittoresca, a luce assai ampia. L’interno ricorda vagamente un asilo infantile: seggiole di pino ergonomiche, un po’ come quelle usate a scuola; tavolini dello stesso materiale; pavimento da tolda di veliero; la sagoma stilizzata di un albero – quasi ritagliata al traforo – che dalla parete sporge verso il centro stanza.

Ci rivolgiamo a una delle due bariste, giovani e bionde. Caffelatte di soia e di mandorla, bagel (ossia, ciambelle yiddish) puramente vegetali. Vado a pagare al bancone, in fondo. Uscendo, un bagno chimico da cantiere, giallo, recante l’annuncio pubblicitario Vernò verhuur (la seconda parola significa “noleggio”), mi strappa un sorriso, rammentandomi il mio ex collega appassionato di golf.
Prendiamo il treno della compagnia Arriva, in direzione Ovest. Tutto il paesaggio brilla di verde, ovunque: non si può certo dire che l’Olanda sia un Paese arido. Disseminate in lontananza, senza insultare la vista, numerose pale eoliche. Nei campi, bovini pezzati, pecore e cavalli. Ecco sulla destra, poco prima dell’abitato di Franeker, che due giorni fa avevamo invano tentato di raggiungere, le vasche di sedimentazione di un depuratore abbastanza grande.

Sosta alla stazione, costituita solo da una minima tettoia. Un posteggio per bici. Casette dalle vaste finestre e dalla piacevole architettura geometrica, con di fronte siepi pareggiate in modo perfetto e riquadri di praticello inglese. Ripartiamo. Dopo pochi minuti, scendiamo ad Harlingen centrum, più piccola ma pure assai somigliante (sia dal lato binari che nella facciata) a quella di Tortona.
Nel corpo principale – con l’ingresso rivolto verso il centro cittadino – la caffetteria e un bazar dell’usato, in cui si può trovare, a prezzi ridottissimi, praticamente di tutto, dagli utensili all’abbigliamento. Nell’eterogeneo scaffale dei libri, mi stupisce, fra uno stradario di Londra e il romanzo di Heere Heeresma Een dagje naar het strand (“Una giornata in spiaggia”), il volume di Maria do Carmo Vieira O ensino do Português, pubblicato dalla Fundação Francisco Manuel dos Santos. Come caspita ci sarà finito quassù?
Attraversiamo la Stationsweg e ci infiliamo, oltre una roggia e un giardino pubblico, lungo il vialetto selciato che costeggia un naviglio abbastanza grande. Imbarcazioni all’ormeggio su entrambe le sponde. Distanziati di poco fra loro, due ponti bianchi a bilanciere. Varchiamo il primo e proseguiamo lungo un canale trasversale, alberato. Da un vicolo – poco più di un passaggio fra le case – vediamo affacciarsi la torre campanaria di una chiesa. Svoltiamo a raggiungerla. Sull’orlo del sagrato prativo, due curiosi segnali di pericolo disegnati dai bambini.
Proseguiamo nella viuzza di fronte. Ci imbattiamo in un viale in curva. Lo seguiamo svoltando a sinistra e mirando a un campanile che spunta dai tetti: “Guarda, c’è un’altra kirkona!” mi fa rilevare Ester. Non riusciamo, però, a raggiungerla. Riprendiamo la direzione originaria imboccando la piccola allea laterale.
Su un angolo di strada, un’epigrafe latina. Ci sforziamo di decifrarla, cominciando dagli ablativi assoluti iniziali: Abolito il lusso di questo secolo, sostituito dalla frugalità dei tempi antichi, che si riflette negli edifici sacri, questa casa dedicata alle muse fu ricostruita dai consoli Ioanne Daniele Toussaint, Henrico Schaaf, Aggeo Hogeboom, Suffrido Bosscha, Vibrando d’Itsma, Henrico Wassenaar, Laurentio Tabes, Harmanno Siccama, Matthia Adolpho d’Idsinga – dagli atti. Nessuna data, né altri riferimenti. L’edificio di mattoni a vista non presenta insegne o caratteristiche particolari. Non riusciamo a capire in cosa consista (o consistesse) esattamente haec musis dicata domus.

Proseguendo, ritroviamo il canale lasciato poco fa: che in questo punto, però, si arresta di colpo sotto la statua di un apparente ragazzino, con un berretto floscio in testa e un fascio di giornali sotto il braccio. Forse uno strillone, come quello effigiato vicino al Municipio di Porto. La targa ai suoi piedi lo identifica come Anton Wachter – Simon Vestdijk – 1896 / 1971. Annoto l’iscrizione, per tramandarne la sconosciuta memoria. Il prosieguo della via, ombrosa di platani, ha il centro occupato, di volta in volta, dai dehors dei locali, da veicoli parcheggiati e dai furgoni a banco di un mercatino alimentare. Le due ali di edifici sono un susseguirsi di negozi e attività gastronomiche.
Mentre cammino, mi immergo nella corrente verbale che mi circonda. Ipotizzo che i suoni peculiari dell’inglese americano, rispetto a quello britannico, siano dovuti all’influsso dell’olandese. Anche la tonalità – o il melos – è simile. E persino lo yeah, parente stretto dello ja locale. A volte, non udendo bene le parole, le due lingue si possono confondere.
Giunti a una frastagliata e inchiavardata costruzione dalla foggia medievale, recante, sulla parete di destra, la scritta Wunhandel van D. Oolgaard & zoon, svoltiamo nel tratto di via attraverso cui si raggiunge l’ampio canale immediatamente a Nord. Costeggiamo l’imbarcazione French kiss, di Monnickendam – villaggio visitato quattro anni fa. Arriviamo al porto. Una darsena, oltre la quale è posta la stazione dei traghetti per l’isola di Terschelling. La statua in bronzo di una specie di marinaio. Il titolo dell’opera, riportato sul piedistallo, è però De Tobbedanser, ossia “il ballerino della tinozza”. Cosa sarà mai? Un pigiatore? Ma se quassù non hanno uva!

Torniamo in direzione Est bordeggiando il canale più grande, fitto di natanti a vela e scortato da bizzarre casette, una diversa dall’altra. Tavolini esterni. In fondo ai vicoli che si aprono lungo la schiera di sinistra, un terrapieno erboso. Alla prima passerella ci trasferiamo in sponda destra e proseguiamo fino al ponte successivo, dopodiché sterziamo in una via abbondantemente invetriata, fino a raggiungere la statua dello strillone.
Facciamo tappa al bar d’angolo, dalla cui vetrina si osservano il monumento e il canale alle sue spalle. Pavimentazione in legno, come lo sono sedie e tavolini; due ampi, gonfi, scuri divani di pelle trapuntata.
Riandiamo verso il porto, seguendo il viale. Entriamo in un minimarket per comprare fazzoletti di carta e caramelline Fisherman’s Friend dal sapore piuttosto salato (salmiak), evidentemente prodotte in base ai gusti dell’utenza locale; poi visitiamo altre botteghe, nell’ormai tradizionale ricerca di qualche ricordino a forma di gatto.
Sul finire, dove prima non eravamo giunti, l’allea si apre in uno slargo pieno di terrasses de café, con uno strano monumento di laterizi, un po’ come in Piazza Ceriana ad Alessandria. Subito dopo, un chiosco bar e un naviglio trasversale abbastanza ampio, popolato di barche tra cui la chiatta Regina Andrea.

Lo varchiamo su un ponte e prendiamo a costeggiare – ad angolo – la darsena, fino a un massiccio faro bianco, ancora in uso. Dietro di esso, un parcheggio dal quale, rasentando basse casette di mattoni e sfilando tra un’aiuola di ortensie e una specie di chiesa senza campanile, dipinta di rosso (la scritta sui vetri dell’entrata, Huisarten Havenplein, viene tradotta da Google “Piazza del porto dei medici di base” – un ambulatorio pubblico, dunque), usciamo nel tratto iniziale di lungodarsena.
Marco Grassano
Dodicesima parte. Segue