Nona puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Di nuovo al Douwe Egberts. Tappa in camera. Oggi prenderemo la corriera fino a Lauwersoog e da lì il battello per Schiermonnikoog, l’Isola dei Monaci Grigi. Immaginavo che la parola oog, traducibile principalmente con “occhio”, si pronunciasse come nel dialetto di mia madre, e invece proprio no.

Un particolare già colto in giro per la città: varie lapidi grigio ardesia, inserite nella pavimentazione di gres rosso dei marciapiedi, recano incise poesie di autori fiamminghi. Non ci capisco nulla, ma l’idea mi pare ottima. Calpestiamo, in questo momento, una lirica di C. O. Jellema. Sfioriamo, poi, la vetrina di biancheria Livera. Curiosa, questa coincidenza tra cognomi olandesi e alcuni delle antiche famiglie di Sale. Quattro anni fa, a Oudemirdum, ci eravamo sorpresi, per lo stesso motivo, di fronte all’albergo Meininger.
Pioviggina a intervalli. Asola un vento piuttosto fresco, che trascina i getti vaporosi dell’insolita fontana a due teste gigantesche, sul lato opposto del piazzale. Siamo indecisi se partire o meno. Ma la lontana striscia di cielo sgombro, in direzione Nord, ci fa propendere per il sì. Attendiamo sulla panca sotto la tettoia, quasi infreddoliti. Nessun potenziale bagnante, stavolta, tra i passeggeri.

Saliamo e ci sediamo a destra. L’autobus svolta ripetutamente, fino a correre lungo una sorta di spalto alessandrino che si srotola fra due file di abitazioni a schiera, identiche a sé stesse per un buon tratto. Piegando pian piano verso Est, l’arteria si amplia. Il tessuto urbano si dirada, a favore del verde. Lasciamo indietro l’abitato.
Quella su sui filiamo ora, fra navigli e specchi d’acqua, è una statale rettilinea, a duplice carreggiata. Attorno, come al solito, pascoli, fitte frange boscose e cascinali aureolati di alberi. Un paio di rotonde consentono di evitare il centro dei borghi. La strada curva lentamente a settentrione. Ogni tanto, l’autista – una signora – aziona i tergicristalli. I chilometri vengono macinati, ma le componenti del paesaggio non mutano, si dispongono solo in modo diverso. All’orizzonte, lo spicchio azzurro, orlato da una sfilacciata fascia bianca, cresce col nostro avanzare.
All’ennesima rotatoria, prendiamo a sinistra, verso Dokkum. Dal nostro lato, un’area naturale prevalentemente umida, solcata da sentieri che qualcuno sta percorrendo malgrado la meteorologia non inviti. Facciamo il periplo della cittadina, senza addentrarci oltre l’ariosa periferia di capannoni, alberi e case. Sostiamo nella stazione degli autobus: concezione in stile autogrill anni Settanta; più pensiline che corpo centrale dell’edificio. La conducente lascia la vettura per alcuni minuti. Ci guardiamo attorno. A pochi metri, sul tetto di un basso edificio di mattoni, tracciata con tegole chiare sulle altre scure, la scritta maiuscola SPOORZICHT. Forse una pubblicità, ma chissà di che cosa.
Riprendiamo la rotta originaria, puntando ora a Nordest. Un reticolo di fossi e di canali quadretta l’ampia pianura prativa, su cui sorge qualche rada fattoria. Dove il suolo lo permette, campi coltivati. Ci approssimiamo via via a una laguna, dalla quale ci separa uno stretto acquitrino. Terreni pantanosi anche a sinistra, finché ci accostiamo al solito argine basso e massiccio, mentre lo specchio d’acqua, increspato di onde, si è ormai fatto vicinissimo al sedime stradale. Corriamo a lungo sullo scarso spazio fra le due barriere. Il rilevato cede il posto a una serie di enormi strutture per l’azionamento di paratie, poi riprende: ma solo l’indispensabile a proteggere la baia in cui sorge il piccolo scalo dei traghetti.
Il fabbricato ha la conformazione degli altri a destinazione analoga visti finora. Forse li hanno realizzati tutti partendo da uno stesso schema, come da noi gli uffici postali di paese negli anni Ottanta.
Cerchiamo invano di acquistare il biglietto all’erogatore esterno, appena fuori dalla porta. Non legge le nostre carte di credito. Ci rivolgiamo quindi allo sportello. Il prossimo veerboot partirà alle 12.30: attesa un po’ lunga. Pagando una quota aggiuntiva, c’è la possibilità di prendere, un’ora prima, il battello rapido. Le sue prenotazioni sono già complete, ma succede spesso che, alla fine, qualcuno non si presenti. Se si dovessero rendere disponibili due posti, ci avvertirà, dice il cortese impiegato.
Ci accomodiamo nel salottino d’aspetto. Un grande affresco raffigura dune crestate di ammofila. Un divano a parete, in similpelle color nocciola, con lo schienale trapuntato. Sopra i tavolini, lampade penzolanti dal soffitto, ma troppo in giù, tant’è vero che, quando mi alzo per andare in bagno, ci sbatto la testa. Un blocco di contenitori per la raccolta differenziata. Un distributore di mascherine chirurgiche (nessuno le usa). Fuori dalle finestre, la torbida distesa del golfo.
Mi metto a leggere e a sottolineare i versi della raccolta L’occhio del monaco, di Cees Nooteboom, scritta in buona parte proprio durante un soggiorno a Schiermonnikoog. Un fitto accavallarsi di immagini oniriche, che traggono però il loro materiale costitutivo dai vissuti reali connessi all’isoletta.
Ne ho la prima riprova subito dopo. Lo sportellista ci chiama e ci dice che i biglietti per noi ci sono. Il supplemento, invece, lo dobbiamo fare a bordo; lui non ce lo può vendere. Ci presenta, spiegandogli il problema, al nocchiero della motobarca: basso, capelli grigi e occhi incredibilmente chiari, di un carta da zucchero così luminoso che mi brilla ancora in mente. All’esordio del libro, Nooteboom racconta l’apparizione, nella propria camera, di una divinità, e precisa: “Il dio assomiglia al capitano del traghetto” [Nota 1]. Non stupisce che una figura simile si sia insinuata fra i suoi sogni.
I sedili verdastri, dentro la cabina, sono disposti in due ali, separate da un corridoio mediano. Il battello si impenna leggermente e sfreccia come un motoscafo. Ogni tanto, i marosi, sollevati dal vento, si schiantano contro la prua e si sfarinano in spruzzi albini. L’acqua, sui fianchi, è scura, limacciosa.
Marco Grassano
Nona parte. Segue
Nota 1: “De god lijkt op de kapitein van de veerboot”, per chi conosce la lingua. Io non ho questo privilegio.