Decima puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Sull’isola, il cielo è prevalentemente sereno: non corriamo il rischio di bagnarci. Il vento, però, soffia energico e continuo, anche senza raggiungere le “raffiche forza 10 / sopra la palude” di cui scrive il poeta. In attesa di procurarci una protezione più idonea, prima di scendere i lunghi scalini di graniglia che circondano il piccolo wagenborg – dove eravamo entrati per cercare i servizi – ci copriamo alla bell’e meglio coi poco consistenti impermeabili di cellophane portati da casa.

La piattaforma di attracco è unita alla terraferma da un istmo lunghissimo. Non sono previsti, per le prossime due ore, mezzi pubblici che colleghino al centro abitato (l’unico dell’isola). Ci incamminiamo sulla corsia pedonale affiancata alla ciclabile. Nessuna infrastruttura di servizio, qui. A destra, una superficie equorea molto mossa su cui si riversa, abbuiandosi, l’azzurro del cielo e si stagliano le ali nivee di uno stormo svolazzante di gabbiani; da dietro l’argine di sfondo spunta un ciuffo d’alberi. A sinistra, l’immagine è la stessa, solo che l’acqua appare bruna, con qualche imbarcazione alla fonda, e le lontane chiome arboree, sovrastate da uno smilzo faro bianco, si stendono in frastagliata schiera.
Sull’incrocio col terrapieno, un casotto mi ricorda quelli dei pesi pubblici attivi un tempo al mio paese. Addossata alla parete sud, una panchina; vi siedono, chiacchierando, alcuni pensionati indigeni, maschi e femmine.
Avanziamo in costa a una carreggiata rettilinea, dal traffico praticamente nullo, lungo l’orlo, in tinta lampone, per i ciclisti. Staccato sulla sinistra, un impianto indefinibile, segnalato da un cartello con la sigla RWZI [Nota 1]. Lontana a destra, avvolta dalla consueta cortina di piante, una costruzione oppressa da un tetto sproporzionato, di fronte alla quale garrisce la bandiera olandese.

Dopo un buon tratto, lo stradale piega – di 90 gradi – a Ovest. Sullo sfondo, emergendo dall’orizzonte irregolare degli alberi, il faro bianco, già scorto, e un altro rosso, discosto e arretrato. Chissà a quale dei due si riferisce Nooteboom quando appunta “il faro / cadde con il suo raggio nella stanza“. Una mandria di bovini pezzati al pascolo. Accanto a noi, una piccola casa – ma in muratura – ricorda la capanna di Thoreau a Walden. Procedendo ancora, una sorta di campeggio o insieme di bungalow, servito da notevoli superfici di pannelli fotovoltaici. Mentre ci avviciniamo al primo rione del borgo, corvi razzolano fra andane di erba appena recisa. Una coppia di cavalli ingualdrappati bruca placidamente.
Svoltiamo sul pavé di un vialetto. Lo scortano piccole abitazioni fronteggiate da aiuole lussureggianti di infiorescenze policrome. Intersechiamo altre viuzze suburbane. Non sapendo dove andare, tiriamo sempre dritti. Pensiamo occorra seguire il percorso degli autobus. Ma eccoli fermi di fronte alla loro rimessa. Raggiungiamo quindi una specie di allea, con ampi giardini in stile italiano a lato degli alberi e un duplice filare di costruzioni basse.
L’impeto dell’aria è, qui fra le case, meno veemente, pressoché sopportabile. Ester ha comunque bisogno di una felpa o giubbino, anche per affrontare il prevedibile calo di temperature che si registrerà stasera. Ecco che, sull’altra sponda dei riquadri di siepe, individuiamo le vetrine di un negozio di abbigliamento e cosmetici, lo STREEK 56.
Ripiegati nelle scaffalature di pino, o sostenuti da appendiabiti, troviamo diversi articoli che fanno al caso nostro. La scelta cade su una maglia sufficientemente spessa, intessuta di varii grigi, della stessa marca (una bandiera con la croce scandinava) del giaccone che si era rivelato così provvidenziale durante il mio viaggio a Chanià. La titolare – alta, bionda, sui cinquanta – nota il libriccino di versi che ho con me. Glielo porgo, dicendole che, oltre alla traduzione italiana, riporta l’originale olandese, e mostrandole la nota finale in cui si menziona quest’isola, da cui la scrittura è stata ispirata.
È ormai l’una. Come era solito commentare un vecchio impresario delle mie parti, “la lancetta della fame segna l’ora dell’appetito”. Torniamo sotto il viale. Ci accomodiamo, dopo qualche decina di metri, ai tavolini della Lunchroom De Koffiekajuit, su seggiole tondeggianti di vimini e sparto (modello, a quanto pare, assai diffuso). Ordiniamo una zuppa e un’insalata. Due passerotti saltellano al suolo, in cerca o in attesa di briciole.
A un certo punto, si posano sulle assicelle del nostro tavolo, a meno di un metro da noi. Mi commuove, questa loro fiducia, ancor più se si tratta di coraggio imposto dal bisogno. Vado a pagare all’interno, piacevolmente luminoso. Pavimento di legno grezzo. Il bancone è subito a destra; la cassa elettronica si trova alla sua estremità. Attorno, teche con cibi di ogni genere.
Il navigatore ci fa imboccare la via che inizia di fronte al locale. Incrociamo la verdeggiante Noorderstreek, su cui si affacciano le finestre esantematiche della vecchia scuola (De Aude Schuele). Senza mai rimanere del tutto privo di abitazioni, il rettilineo si bipartisce in carrozzabile e ciclo-pedonale, e si abbandona gradualmente a un agro punteggiato di alberi e fitto di arbusti. Sulla nostra sinistra torreggia il faro bianco. Da vicino lo si constata cieco, ridotto a mero supporto per antenne e ripetitori.

Il viottolo di accesso a una casa è pavimentato di valve bianco-grigie [2]. I cespugli e le erbe sono gli stessi che da noi: un profluvio di rose canine (“Accanto a un cespuglio di rosa canina ho visto / il mio primo amore…” scrive Nooteboom) e di more da rovo, i cui frutti appaiono già maturi; le spighe di fioretti gialli del tasso barbasso. La freccia indicante un Minigolf (Midgetgolf) mi richiama alla mente un ex collega appassionato alla versione maggiore di questo sport. Tra due tozzi albereti, una vasta superficie di erba spontanea, falciata da un po’ e ormai pronta per essere raccolta nei fienili.
All’altezza di un piccolo rione, imbocchiamo la viuzza ammattonata che si inoltra verso sinistra. Una casupola tutta tetto, con panni stesi al sole. Proseguendo, lo stradello si fa angusto, pigiato tra la bassa vegetazione. Altre persone vi camminano. Assaggiamo qualcuna delle more, ancora piuttosto asprigne. In Val Curone non hanno neppure iniziato a scurirsi…
Il terreno assume un andamento ondulato, dunoso, mantenendosi però rivestito di fronde. Spunta il faro rosso, dominando gli arbusti e i tetti di canne di un paio di piccole costruzioni (“Non nella vita di tutti c’è posto per un faro, / ma nella mia sì…” – sempre Nooteboom). Raggiungiamo la torre su una piazzetta, contornata da alcuni cottage a destinazione ricettiva, come lo sono del resto gli altri sparsi attorno.
Anche questa lanterna è avvolta da una rete di ripetitori e di antenne, e persino sormontata da un radar, ma l’apparato illuminatore della cuspide si direbbe ancora munito di vetri, e pertanto attivo. Da lì prosegue verso l’acqua, in saliscendi e facendosi varco tra erbe e arbusti, un sentiero di conchiglie. Come nella seconda poesia della raccolta: “Sul sentiero tra le dune ho incontrato mia madre / (…) / Sapevo che era lei per il rumore / delle conchiglie sbriciolate sotto i suoi piedi“.

Lo percorriamo. Ci voltiamo un istante. Il paesaggio alle nostre spalle si offre alla vista come nel dipinto di Edward Hopper Lighthouse hill [3]. Anche su quest’isola, il fronte dei dossi è doppio. La fascia interdunale ha l’aspetto di una prateria. Arriviamo a lambire la spiaggia di sabbia bianca e fine. Un paio di coppie stanno sedute sui ciuffi di ammofila o camminano sulla pista di accesso. Il mare è cupo e rigato di schiuma. Lontano a destra, in corrispondenza dello sbocco della strada principale, si erge, su palafitta, una struttura turistica. Aquiloni fluttuano in cielo. Diversi windsurf giacciono, abbandonati, sulla spiaggia.

Cedo ancora la parola all’impareggiabile scrittore autoctono: “Il Mare del Nord schiumava selvaggio, / la spiaggia era deserta…“; “Non mi vedono, mi passano accanto, // vanno dalla duna alla spiaggia, / sabbia sottile vola bianca verso le onde, neve / ai loro piedi…“; “Tenebrae // sulla spiaggia e sul mare, così grigio / e pericoloso, i colori della quasi morte“; “Ma il rumore del mare / rimaneva per quegli sconosciuti lo stesso, / tenebrae, allucinazioni, // specchi in cui abitano altri / che non han più voluto vivere, spaventa / passeri sulla duna, volti / nascosti nell’ammofila, spintisi ormai / oltre l’ultima boa, in leggende di dune / e banchi di sabbia…“.
Avevo già riscontrato, pedalando verso Oudemirdum, una certa somiglianza tra la Frisia e la Cape Cod descritta da Thoreau. L’analogia appare accentuata in questo scenario possente, tanto che si potrebbero adottare tal quali – sostituendo l’America con l’Europa – le frasi conclusive del libro: “Il tempo giusto per visitare questo posto è durante una tempesta d’autunno o d’inverno; un faro o una baracca di pescatori sono l’alloggio migliore. Un uomo può stare lì e gettarsi tutta l’America dietro le spalle“.
Marco Grassano
Decima parte. Segue
Note
[1] Avessi saputo che si trattava del depuratore fognario, mi sarei fermato per darci un’occhiata.
[2] L’amico scrittore Marino Magliani, residente in Olanda, mi ha spiegato che, non disponendo, per evidenti ragioni geologiche, di ghiaia o di brecciato, mettono così a profitto le tonnellate e tonnellate di gusci di mollusco che l’oceano (mi correggo: il Mare del Nord…) riversa annualmente sulle spiagge.