Settima puntata del viaggio di Marco Grassano in Frisia.
Per la colazione torniamo, seguendo il tragitto più lineare, al Douwe Egberts, mostratosi all’altezza delle aspettative vegane.
Inforchiamo le biciclette. Siamo ancora tutti indolenziti, a dire il vero, eppure ci prefiggiamo di raggiungere Franeker (Frjentsjer), che la nostra guida segnala come “pittoresca cittadina” contraddistinta da un “centro storico ben conservato, posto piacevole per fare una passeggiata” e che dista un’accettabile ventina di chilometri.
Il cielo è fosco di nubi, ma al momento non cade goccia. Passiamo davanti alla Stazione, diretti a Ovest. Assecondiamo – effettuando più volte la mossa scacchistica del cavallo – le indicazioni fornite dal navigatore.
Ci ritroviamo in un quartiere di nuovissima costruzione. Un grandioso Palazzetto dello Sport. Estesi parcheggi intervallano capannoni sfavillanti di vetri, a prevalente uso ludico-mercantile.
Inizia a piovigginare. Non vi sono, nelle immediate vicinanze, possibili ripari, tranne la terrazza esterna di un Mc Café, protetta da ampi ombrelloni. Ci fermiamo qui.
Come ci si può aspettare da un clima atlantico, in breve lo stillicidio smette. La nuvolaglia, per quanto screziata da tratti luminosi, mantiene una cupezza poco rassicurante.
Ripartiamo. Pian piano, ci lasciamo alle spalle l’area urbanizzata e ci facciamo assorbire dalla campagna. Mi limito a pedalare, docile, sulla scia di mia figlia, che a sua volta si attiene al percorso consigliatoci dal telefonino in base al nostro mezzo di trasporto. Ci destreggiamo tra stradine e fossati colmi. Ne valichiamo uno, sussultando a raffica sul ponticello dalla pavimentazione in doghe trasversali ricoperte con un sottile strato di asfalto.

Riprende la pioviggine. Individuiamo, oltre la bealera alla nostra sinistra, una piccola masseria col tetto quasi piramidale, circondata da alberi rigogliosi. Entriamo nell’aia e ci collochiamo sotto un capanno aperto, che alberga legna da ardere e attrezzi per tagliarla. La bionda padrona si affaccia alla porta. Le dico che “We are just waiting for the rain to stop”. Lei sorride, replica qualcosa di incomprensibile e torna in casa.
Un rondò e qualche passaggio ci fanno superare una strada più importante.
Attraversiamo la via alberata di un borgo sul cui marciapiede una ruspetta esegue lavori di scavo. Ricordo a Ester che, da molto piccola, aveva avuto timore di un macchinario analogo con cui, vicino alla sorgente di Vigana, stavano disseppellendo i resti di un’antica fornace per mattoni.

Altri operai, rumorosamente indaffarati con motosega e cestello gru per potare i rami inferiori di un viale. Sulle superfici a prato spontaneo che dividono la pista dalla carrozzabile, fiori di campo del tutto simili a quelli che crescono in Val Curone.

Siamo a circa metà del percorso. Le gambe e il fondoschiena ci fanno soffrire con intensità crescente. Svoltiamo nell’ennesima straducola campestre, impeccabilmente asfaltata (come tutte, del resto). Ricomincia a gocciolare. Una fattoria zootecnica, a sinistra, offre la copertura del suo fienile in cemento prefabbricato. Dividiamo l’abbondante spazio con balle di paglia – su cui ci sediamo – e un trattore. Non compare anima viva, neppure dalle due aguzze villette confinanti. Il disagio fisico e la meteorologia sfavorevole ci inducono a rientrare, rassegnati, in città. Invertiamo la marcia.

Ormai manca poco. Un rado rione. La roggia da cui è attraversato, e gli alberi (soprattutto i salici piangenti), i cespugli e le canne che in essa si specchiano, mi ricordano gli Orti Grandi di Sale.
Quando riponiamo le bici nel garage – decidendo che non le useremo più, perché non ce la faremmo proprio – è ora di pranzo.
Marco Grassano
Settima parte. Segue