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Da Adelphi “Verso Capo Horn” di Stefano Faravelli
Se è vero che dall’artiglio si riconosce il leone (ex ungue leonem), dall’unghia riconosceremo il pinguino e, per metonimia, l’intero viaggio che Stefano Faravelli – finalmente approdato in Adelphi come autore, dopo la splendida copertina per Un viaggio in sambuco di Norman Lewis – ha compiuto Verso Capo Horn.
È il titolo dell’opera che l’editore milanese ha mandato da poco in libreria e rivela già quanto l’artista racconta al principio dell’introduzione nel libretto che accompagna il carnet de voyage:
Dove per “verso” si intende moto a luogo per approssimazione: qualcosa di simile a un atto mancato, insomma. Capo Horn mai scapolato e, a sole 7 miglia dal Corno, il ritorno precipitoso alle acque più tranquille del Canale Beagle”.
Il mancato raggiungimento della meta non ha reso il viaggio un fallimento, tutt’altro. E il libro che ha generato è insieme scrigno e tesoro. Lo si può leggere con l’ausilio del già citato libretto d’istruzioni, su cui sono riportati i testi calligrafati dall’autore sul carnet, con l’aggiunta di ricordi e riflessioni nati nel corso della rilettura. (Sia detto tra parentesi, con i dovuti accorgimenti il libretto potrebbe avere vita autonoma ed entrare di diritto nella collana della Piccola Biblioteca Adelphi dove farebbe compagnia all’amato Ceronetti). Oppure si può sfogliare il carnet come album delle meraviglie per soffermarsi – tutto il tempo che si vuole – ad ammirare i disegni, uno più bello dell’altro.
Ogni pagina è un microcosmo che racchiude, come l’Aleph di Borges, tutto il mondo. Come nei precedenti carnet, pubblicati da altri editori (anche per ragioni personali sono legatissimo a quello sull’Egitto che, significativamente, ha per sottotitolo Cercando l’Aleph), in Verso Capo Horn Faravelli dimostra di essere un artista-biblioteca.
Nelle acque tempestose della Terra del Fuoco è il Prospero della barca (uno sloop) Adriatica. Raccoglie e racconta storie e intanto ci invita al viaggio, anzi, ai viaggi. O meglio ancora: a sperimentare l’arte della caccia sottile, per la quale non occorre attraversare l’oceano, basta guardarsi intorno con occhi attenti e cuore aperto allo stupore. Magari non vedremo come lui sfenischi magellanici né ci imbatteremo in vascelli fantasma, ma rimarremo colpiti dalla straordinaria ricchezza e varietà della natura.
Da artista-biblioteca Faravelli semina curiosità con disegni e parole, invitandoci a saperne di più dell’ammiraglio turco Piri Reìs o dell’esploratore belga Adrien de Gerlache, a leggere una buona volta quel libro di Coloane (“visionario come un Omero patagonico”) che da tanto tempo ci aspetta su uno scaffale, a perderci nella consultazione di un portolano, a riconoscere i nostri presentimenti come lui ha fatto con i suoi patagonici.
Come segnalibro useremo la raffigurazione dell’unghia di pinguino che ha letteralmente attraversato il mondo per approdare da Stefano, in un viaggio lungo un anno che meriterebbe un altro libro. È essa stessa metonimia della Patagonia e da lei, dunque, possiamo risalire a quei mari e ai loro abitanti, sopra e sotto la superficie dell’acqua.
Verso Capo Horn è un atlante zoologico (osservate i caranchos di pagina 45 o la fauna ittica di pagina 67!) e un resoconto di passeggiate botaniche; un album di francobolli e biglietti raccolti durante il viaggio; un diario di ricordi e nostalgie personali:
E di nuovo è lo schiudersi di una cronotopografia tutta interiore, dove il paesaggio reale (di una bellezza che toglie, letteralmente, il respiro) risuona nel ricordo: la prima volta a Port-Cros, l’arrivo in Corsica dopo la traversata”.
Ma vi leggiamo anche notazioni tecniche (e ne vorremmo di più, in particolare sui colori, come il Windsor green) come quelle a pagina 61 per descrivere come ha reso i meandri dei fiordi e le foreste, senza trascurare le difficoltà incontrate durante il viaggio, come il freddo che gli intirizziva le dita, la pioggia che impediva di disegnare e il susseguirsi di stagioni della durata di pochi minuti.
E una confessione che dice dell’uomo, oltre che dell’artista: “Piacere raro nel dipingerli (gli esoscheletri di ricci marini, N.d.R.): l’osservazione, la comprensione e la mimesi figurativa della regolarità di una forma vivente sono la mia cura al mal de vivre, il rimedio all’inquietudine, la terapia dei giorni tristi”.
Faravelli a Biella mentre disegna la dedica alla mia copia del libro
Ma sono soprattutto le storie la specialità, il tratto inconfondibile – verrebbe da dire – dello stile di Faravelli. Quelle condivise con i compagni di viaggio (in carne e ossa o di carta non fa differenza) a bordo della “Dama Roja” Adriatica o nelle soste lungo il tragitto, durante le quali Stefano riconosceva il “dialetto familiare dei porti” e l’odore di salsedine e di alghe – a mo’ di Madeleine proustiana – riattivava la macchina del tempo (“Mi piace annusarne il profumo ad occhi chiusi. Un senso di primordi, caldo e salato, che mi riporta infallibilmente alla mia infanzia marina”). E le storie apprese negli incontri, su tutti quello con l’abuela (nonna) Cristina, l’ultima persona a parlare la lingua degli indios Yaghan. Più avanti poche righe gli bastano a rievocare la triste vicenda di Jemmy Button.
E poi la “sprezzatura” degli Onas nei confronti della carne acquisita senza sforzo; il topos iconografico del primo incontro con “l’altro”; silenzi, epifanie e portenti della natura (ah, le balene! E non poteva mancare Giona… al nostro, anni fa Stefano ha regalato un elefante fortunato che teniamo come prezioso talismano); “Lenin” salvato per un solo voto e la potenza dei sogni; il genocidio e la caccia all’indio; Chatwin e Neruda… e ancora tanto altro!
E figurarsi che Borges aveva sentenziato: “Non ci troverete nulla. Non c’è nulla in Patagonia”. Verso Capo Horn insegna anche a diffidare dei maestri.
Saul Stucchi
Stefano Faravelli Verso Capo Horn Adelphi Fuori collana 2025, 97 pagine 40 €