Decidiamo all’ultimo momento di andare al mare in questi primi giorni festivi di giugno. Padre e figlie ormai oltre i vent’anni: un lusso raro. Come meta scegliamo Rimini: in tempi dolorosi, vogliamo un luogo allegro, solare e dove le persone sono per la maggioranza squisite; e pazienza se l’acqua dell’alto Adriatico è quello che è.
Ci aspettano quarantotto ore di tregua, di una bellezza quieta, semplice. Il primo bagno dell’anno nell’acqua gelida, le prime passeggiate sulla battigia, la prima cena all’aperto, la fortuna di aver portato con me un romanzo che si sta rivelando splendido.

A causa della decisione estemporanea, non ho trovato posti per il viaggio di ritorno sui confortevoli treni veloci e ho dovuto ripiegare su un interregionale Cattolica – Milano senza possibilità di prenotazione. Mentre ci dirigiamo, coloriti e malinconici, verso la stazione, ci auguriamo di poter viaggiare in condizioni decenti. La folla straripante sulla banchina ci toglie subito ogni illusione.
Già salire sul treno, io che faccio da apripista e le ragazze aggrappate a me, si rivela impresa di non poco conto. In più siamo capitati nella carrozza che ospita anche le biciclette, che occupano non poco spazio. Ci vuole un bel po’ di tempo prima che tutti i viaggiatori riescano ad accalcarsi dentro il convoglio ma dopo una lunga sosta finalmente ripartiamo e per fortuna l’aria condizionata funziona. Nel corridoio ci ritroviamo uno addosso all’altro, con appena lo spazio per respirare e compiere minimi movimenti. Con pudore e senza permetterci di azzardare alcun paragone, a tutti e tre vengono in mente all’unisono i carri bestiame sigillati che ottant’anni fa si dirigevano verso i campi di concentramento e decidiamo che non è il caso di lamentarci troppo.
Alle fermate successive, solo un esiguo numero di aspiranti viaggiatori riesce a salire a bordo, aumentando comunque l’affollamento. Controllo frequentemente che le mie figlie non vengano assalite da crisi d’ansia mentre loro si preoccupano per l’artrosi che affligge il mio ginocchio destro e comunicano la loro preoccupazione ad alcuni tra coloro che sono seduti vicino a noi.
Un ragazzo con la coda e gli orecchini mi cede il posto con grande semplicità, senza affettazione o compiacimento. Ringraziandolo, preciso che accetto soltanto per una manciata di minuti ma ogni volta che faccio per alzarmi, lui accampa una nuova scusa: facciamo alla prossima stazione, non ne potevo più di stare seduto, in piedi c’è più aria… alla fine, imbarazzato, lascio sedere una signora sudamericana che in questo carnaio non ha perso sorriso e allegria.
Due ragazze napoletane piene di tatuaggi si stringono sui loro sedili e me ne riservano un pezzo ma così sto ancora più scomodo e allora, di nuovo in piedi, mi appoggio sul bordo dello schienale (le mie figlie sono riuscite nel frattempo a sedersi raggomitolate per terra) riesco a estrarre il mio romanzo dallo zaino e mi metto a leggere.
Di tanto in tanto mi guardo intorno e mi tocca constatare che la maggioranza di coloro che sono comodamente seduti non manifesta la minima intenzione di concedere ad altri un po’ di riposo, neppure temporaneo. Più di tutti mi risultano insopportabili i genitori che potrebbero almeno per una mezz’ora tenere sulle ginocchia i figli piccoli e la coppia di fidanzatini con le facce da ebeti che sta guardando un film o una serie sul portatile. Mi sembra già un piccolo miracolo che ancora nessuno, soprattutto se di età avanzata, abbia avuto un mancamento.
A sentirsi male è invece una ragazza che a Parma ha appena messo piede sul vagone. Dalla mia posizione non riesco a vedere nulla ma intuisco che è crollata a terra e che, con comprensibile agitazione, si sta tentando di ricavarle un po’ di spazio. Un’altra ragazza, molto alta, intanto scoppia a piangere in modo accorato, probabilmente si è impressionata. Sconcertato, colgo i rimproveri che alcuni passeggeri le rivolgono, esortandola a non fare tragedie, a non avere la lacrima facile, quasi avesse commesso una colpa evidente e censurabile che ha risvegliato in loro quell’istinto del giudice che in troppi è subito pronto a emergere.
Trascorre davvero un bel po’ di tempo prima che la ragazza svenuta riesca a rimettersi in piedi. A quel punto, nessuno di quelli seduti più vicino a lei si offre di lasciarle il posto. Lo fa una signora non più giovane a un paio di metri da me. La ragazza, visibilmente confusa e con il viso madido di lacrime e sudore, si avvicina con estrema fatica e si accascia sul sedile. È minuta, intontita, lo sguardo perso e offuscato.
Poiché mi pare evidente che non stia ancora affatto bene e credendo che stia viaggiando da sola, suggerisco a una delle mie figlie di chiederle se soffra di attacchi di panico perché purtroppo abbiamo con noi dei farmaci che potrebbero forse tornarle utili. Giuditta si china verso di lei e le parla con dolcezza all’orecchio. Sì, la ragazza soffre di attacchi di panico ma è anche epilettica e dai discorsi intorno a me scopro subito dopo che ha avuto un attacco di convulsioni. Mia figlia mi spiega che comunque non è da sola, viaggia insieme alla ragazza alta che era scoppiata a piangere.
Cercando di non risultare invadente, ogni tanto alzo gli occhi dal libro e la osservo. Lentamente si sta riprendendo; riesce anche a parlare un poco al telefono con la madre. Chissà perché, mi suscitano una particolare tenerezza i suoi piedi piccoli, non molto belli e un po’ sporchi infilati nei sandali a ciabatta e chissà perché mi viene in mente che quei piedi Caravaggio avrebbe saputo dipingerli con maestria e pietà assolute.
Nei pressi di Milano, l’amica riesce finalmente a raggiungerla, facendosi largo tra la folla. È una giovane donna di bellezza ed eleganza rare, la bellezza elegante di uno splendido animale, l’eleganza naturale che probabilmente le deriva dall’essere cresciuta in una confortevole agiatezza. Senza ammettere repliche, si fa consegnare dalla compagna il bagaglio: sarà lei a portarglielo ma non è tanto il gesto a colpirmi quanto l’intensità dello sguardo che le tiene incollato addosso e che difficilmente dimenticherò.
Quale citazione dal Paradiso Perduto di Milton si rivolgono i due amici nel primo romanzo della Trilogia del Ragazzo di Jón Kalman Stefánsson? Sì, mi pare di ricordarla: nulla mi è delizia, tranne te. Quello sguardo che difficilmente dimenticherò, contiene tutta l’apprensione, tutto l’affetto, tutta la tenerezza e la cura possibili. Davvero, nell’eccessiva e generale insensatezza delle cose, l’amicizia è il capolavoro dell’esistenza.
Giovanni Granatelli
In libreria: Giovanni Granatelli è autore – tra gli altri titoli – di Nomi, cose, musiche e città pubblicato da Arkadia e di Resoconto. Poesie 2002-2022, edito da Scalpendi.