Lo scorso anno, di questi tempi, era appena passato Halloween e io lo celebravo con “La notte dei morti viventi”; quest’anno gioco d’anticipo e parlo di un film de paura un poco prima: “The shining” di Stanley Kubrick (1980).
Una sceneggiatura robusta
Prima di tutto, diciamo che il film è tratto da un romanzo di Stephen King. Si racconta che Kubrick abbia contattato lo scrittore con una telefonata alla mattina presto: King rimase scioccato quando sua moglie gli disse che c’era il regista al telefono. E, sempre per restare nell’aneddotica, durante la lavorazione del film, sembra che Stanley Kubrick di tanto in tanto telefonasse a Stephen King alle tre del mattino e gli chiedesse cose come: “Tu credi in Dio?”.
Ma, veniamo al film. La robusta sceneggiatura dello stesso Kubrick e di Diane Johnson (pur distanziandosi a volte dal libro omonimo) rappresenta un perfetto esempio di come si costruisca un horror. L’ambiente in cui si svolge la vicenda è claustrofobico, con labirinti e ambienti chiusi.
La tensione cresce gradatamente, anche perché accentuata dalla macchina da presa che precede o segue gli attori nei loro spostamenti: valga come esempio l’inseguimento di Danny sul triciclo che attraversa i corridoi deserti. È indispensabile però, a questo punto aprire una piccola parentesi tecnica: nel film, Kubrick fa largo uso della steadycam (introdotta a metà degli anni Settanta dall’operatore Garrett Brown), che può essere utilizzata nelle situazioni più disparate, dalle carrellate tipiche del cinema, alle riprese sul palco di un concerto, o a quelle effettuate in luoghi angusti, dove altre attrezzature più ingombranti, come i dolly, non possono arrivare; le immagini ottenute riescono a simulare il punto di vista dei protagonisti, aumentando il realismo e, di conseguenza, la partecipazione dello spettatore.
Dall’orrore facile all’angoscia profonda
“The shining” si muove tra favola e racconto gotico, ricco di segnali ambigui che di fatto rendono l’orrore tanto più profondo quanto più difficilmente interpretabile. Dai tempi di “2001: Odissea nello spazio” e “Arancia meccanica”, il maestro americano ha cercato di trasformare un ambiente fisico in paesaggio mentale e anche questo film è costruito per passare da una lettura solo materiale a una più spirituale.
I rinvii a questo secondo livello sono infiniti, poiché a Kubrick interessa turbare lo spettatore, trasformare un orrore “facile” in un’angoscia di ben altro peso: così chiunque sarà libero di interpretare i propri fantasmi, se non proprio di spiegare quelli del protagonista.
Stanley Kubrick (non vorrei ripetermi, ma è necessario scriverlo anche questa volta) passa per essere stato uno dei più grandi registi del secolo scorso. Nel suo caso, alla positiva accoglienza dei film da parte della critica, si è spesso affiancato anche un buon risultato al botteghino. Pur avendo girato solo tredici lungometraggi, si è cimentato in generi diversi (noir, peplum, satira politica, fantascienza, guerra, horror e altri), cercando di destabilizzarli e sempre mostrando una notevole padronanza del mezzo tecnico.
Alcune curiosità
A tredici anni comincia a frequentare una scuola di fotografia e riporterà questa passione nei suoi lavori per il grande schermo. È noto che fosse capace di passare ore intere a studiare un’inquadratura, fino al punto da assillare gli attori (che, comunque, lo hanno sempre trattato con un mistico rispetto).
Il suo cinema sposa l’idea della perfetta integrazione fra etica ed estetica, e riesce così a sfuggire alla tentazione di esprimere una morale. Le immagini e il messaggio si fondono e la valutazione su ciò cui si assiste è lasciata totalmente allo spettatore.
Nel 1997 ha ricevuto il “Leone d’oro” alla carriera, mentre (a fronte di tredici nomination) non ha mai vinto un Oscar (se non si considera quello del 1969 per “migliori effetti speciali” a “2001 Odissea nello spazio”).
Curiosità: Kubrick è stato indicato dal complottista Bill Kaysing come possibile regista del falso sbarco sulla Luna del 20 luglio 1969. Ovviamente si è in seguito compreso che non c’era nulla di vero.
Nota: “Il mattino ha l’oro in bocca” è la frase che lo stesso Kubrick ha voluto usare per l’Italia (ci sono versioni diverse per i diversi paesi). Nella versione originale Jack ha ossessivamente scritto sui suoi fogli “All work and no play makes Jack a dull boy” (Sempre lavoro e nessuno svago fanno diventare Jack un ragazzo noioso).
L S D