Quando Pierrette, la povera orfana protagonista del romanzo omonimo di Balzac, entra in scena – momento iniziale a parte –, la sua vita difficile è già stata prefigurata in quasi un centinaio di pagine dalla storia dei suoi carnefici, i Rogron, fratello e sorella, suoi cugini, orribili esempi di parvenu inutilmente protesi a guadagnarsi – come il verghiano Mastro-Don Gesualdo – il rispetto e l’accoglienza della buona società.
La provincia francese – siamo a Provins – appare presto il teatro di destini umani per lo più infelici, costruiti va da sé da cattivi caratteri, i due cugini in primis, avidi e aridi, grottescamente ambiziosi, difficilmente propensi a fare qualcosa che non sia dettato dall’interesse.

Balzac, al solito, ce li mostra con tutta la densità descrittiva di cui è capace, nulla lasciando al non-detto: lui, Jérôme-Denis Rogron, già da giovane mostrava sul viso una “lividezza flaccida tipica delle persone che vivono in retrobottega senz’aria, dentro certi bugigattoli muniti di sbarre chiamate Casse”, la sorella, invece, poiché il politically correct non rientrava fra le ubbie dell’epoca, viene massacrata da subito nell’impietosa cifra del romanziere come “una brutta zitella”.
Bottegai resi ansiosi dalla concorrenza prima, imprenditori tirchissimi poi, pensano di poter fare un buon acquisto occupandosi dell’orfana Pierrette, così da risultare più graditi al milieu che conta, intanto contando però ogni spicciolo che la ragazza gli costa. Pierrette, graziosa, ingenua, “con una testardaggine tutta bretone”, va vestita, nutrita – ed è imbranata, ogni cosa che tocca rompe, cammina dappertutto e per quanto delicata sia, sporca pavimenti, mobili, vettovaglie. Costringe a una forza-lavoro estenuante.
E quando inizia a studiare, i danni diventano “enormi”: “inchiostro sui tavoli, sui mobili, sui vestiti,” insomma per i Rogron arriva presto il momento della fatidica domanda non sarebbe “il caso di guadagnarsi il pane”?
Pierrette a quel punto medita di scappar via, anche perché i Rogron, in attesa di risultati significativi nel gradimento dell’alta società, ne fanno l’oggetto preferito delle loro frustrazioni: la rimbrottano, sgridano e puniscono dall’alba al tramonto. Le danno della “bestia”. Morale, Pierrette “acquisì l’aspetto ebete delle pecore: non osò più far niente vedendo le sue azioni mal giudicate, mal accolte, male interpretate” – e il il peggio sarebbe ancora dovuto arrivare.
Ma il seguito della vicenda lo lasciamo alla curiosità del lettore. Che intanto riesce a vedere ogni angolo di Provins: il fondale della provincia è apparecchiato con acribia ancor più minuziosa, tutto nella rappresentazione di Balzac è meravigliosamente credibile – spazio e varia umanità che lo abita, compresa quella che la governa, quella dei politici.
Sì perché le vicende di Pierrette finiscono per interessare e essere condizionate dal conflitto politico dei partiti e delle grandi famiglie della zona, credendo i Rogron di vincere la loro partita appoggiandosi – appoggiandolo – all’avvocato Pinet, uomo di una stronzaggine quasi epica, esponente della borghesia liberale e avversario dell’élite che li ha tenuti ai margini.
Capitolo meno noto della “Comédie humaine”, “Pierrette” è significativo dello sguardo ultrapessimista che il grande romanziere matura a un certo momento nei confronti della società francese – il denaro e la lotta per il potere dominano incontrastati ogni scelta, negli individui e nella classe politica. Gli scapoli poi sono peggio degli altri – Pierrette fa parte di un trittico di romanzi (minori) in cui essi sigillano l’epitome dell’aridità.
Pierluigi Pellini nella postfazione ricorda le contraddizioni dello scrittore, nostalgico dell’Ancien Régime che però, come un banale capitalista borghese non concepisce l’uomo se non nel segno della produttività. Corollario: lo scapolo consuma la sua quota d’energia nell’inutile ferocia di “investimenti libidici deviati”.
Romanzo a tesi dunque, con le immancabili – ne abbiamo anche nel Balzac migliore – sentenze sulla vita, gli uomini e il mondo tutto, spesso generiche e a volte acute; non manca nemmeno la tentazione – presente anch’essa costantemente nella sua opera – di scambiare il melodrammatico con il tragico.
Ma “Pierrette” offre un saggio anche delle virtù di un’arte a tratti impressionante: l’abilità di disegnare paesaggi di vita materiale e morale insieme è mirabile, così come il virtuosismo mai fine a se stesso di delineare ambienti sensorialmente così vivi da trasfigurarvi mondi interiori, psicologici, umanamente – in questo caso – abietti.
Senza molte sfumature – certo non è Proust, e nemmeno Flaubert, ma almeno è Balzac.
Michele Lupo
Honoré de Balzac
Pierrette
Sellerio
Collana Il divano
Traduzione di Francesco Monciatti, a cura di Pierluigi Pellini
2021, pagine 400
14 €
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