C’è tempo fino al 3 agosto per visitare alla Fondazione Luigi Rovati di Milano la mostra Etruschi del Novecento, inaugurata lo scorso aprile. Curata da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci e Alessandra Tiddia, segue il primo capitolo squadernato al Mart di Rovereto, con cui il progetto è stato studiato e realizzato. Si tratta di una seconda tappa “distinta e complementare” rispetto alla precedente, dunque ne è consigliata la visita anche a chi abbia avuto la fortuna di andare a Rovereto.
Lungo il percorso “milanese”, che si snoda dal Piano Ipogeo (a fare la guardia è il Leone urlante di Mirko Basaldella: una scelta davvero azzeccata quanto scenografica!) fino al Piano Nobile del Museo, i visitatori hanno modo di verificare quanto l’arte novecentesca debba agli antichi Etruschi e quanto, spesso, sia difficile assegnare a colpo sicuro a uno o all’altro dei corni temporali presi in esame un vaso o una scultura tra le opere esposte. È il caso per esempio della teca che ospita tre teste: una è opera di Dino Basaldella (fratello di Mirko), la seconda di Quinto Martini e la terza di un anonimo artista (chi penserebbe di definirlo artigiano?!) dei primi decenni del I sec. a.C.

I vetri delle teche creano giochi di riflessi che rendono ancora più interessante il dialogo tra opere di epoche così distanti: a volte ne esce un confronto, altre una sovrapposizione. Senza dover ricorrere sempre alle didascalie – ma io personalmente sono un attento osservatore, se non addirittura un cultore di questi cartigli – i colori dei supporti suggeriscono all’osservatore l’abbinamento corretto tra i pezzi della medesima epoca.
Ma a prescindere dall’epoca di realizzazione, sono tutte opere da ammirare con calma. Questa disposizione d’animo è forse la guida migliore per esplorare una collezione permanente o una mostra temporanea come questa, ricca di preziosità. E non mi riferisco soltanto a quelle mostrate in quel reparto di gioielleria – verrebbe da chiamarla così – che è la rientranza dedicata ai monili. Insieme ad alcuni pezzi della collezione si trova ora l’opera Tracce di Fausto Melotti (1975), in oro rosa a 18 carati, concessa da un collezionista privato.
A qualche passo di distanza un ex voto zoomorfo in terracotta del III secolo a.C. condivide la teca con un Piccolo cavaliere di Marino Marini, in terracotta policroma, prestato dalla Fondazione di Pistoia dedicata all’artista. Numerose sono le opere arrivate da fondazioni e archivi, come la Testa del 1978 (dalla serie Il sorriso verticale della Gioconda) di Roberto Matta concessa dagli Archivi Matta.
Il Gallo di Fausto Melotti dialoga con l’oinochoe (brocca) con teste di cavallo datata alla prima metà del VII secolo a.C., della stessa Fondazione Rovati, mentre dal Museo Archeologico Nazionale dell’Agro Falisco e Forte Sangallo di Civita Castellana è arrivata un’olla biansata ancora della prima metà del VII secolo che ha una “replica moderna” (al Mart erano due) realizzata da Gio Ponti per la Società Ceramica Richard-Ginori.
L’askos – ovvero un vaso per liquidi oleosi – zoomorfo della Fondazione Rovati sembra l’opera più moderna tra quelle della sua vetrina e invece ha oltre duemilacinquecento anni d’età. Li porta benissimo!

Della famiglia d’artisti Randone sono esposti diversi pezzi, creati da Francesco e dalle sue figlie. A questo proposito è il caso di spendere due parole sul corposo catalogo, apprezzabile non solo per i saggi – cito almeno All’ombra della “Montagna incantata”. Gabriele d’Annunzio e i malinconici Etruschi di Maurizio Harari e Chimere fra antico e moderno di Martina Corgnati – ma anche per gli interessanti documenti, tra cui un ritratto fotografico della famiglia Randone in una delle torri delle Mura Aureliane di Roma, scattato attorno al 1912.
Nel saggio Etruscherie del Novecento a firma di Lucia Mannini pubblicato nel catalogo si legge:
La “bottega mistica” di Randone aveva […] in Francesco una sorta di sacerdote e nelle figlie – Yris, Honoria, Horitia, Hurania, Lucilla, Saturnia, nomi tratti dalla storia romana e dal mondo astrale – le vestali, ma anche valide collaboratrici e custodi delle segrete ricette, insieme con il fratello Belisario, noto con lo pseudonimo di Lupo delle Mura”.

Devo confessare che il mio sguardo da antichista tende a soffermarsi soprattutto sulle opere etrusche, eppure mi sono meravigliato più volte nel constatare come i pezzi novecenteschi selezionati dai curatori reggano bene il confronto. Così mi sono soffermato davanti alla teca che custodisce quanto resta del Bellerofonte dal Tempio di Apollo a Portonaccio, Veio (uno dei pezzi più belli prestati dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma), ma ho anche ammirato la Lucerna di Duilio Cambellotti (1935), in terracotta dipinta e invetriata.
Per non parlare del dialogo serrato che si tiene al Piano Nobile tra un canopo (vaso funerario) di inizio VI secolo (della Fondazione Rovati), di produzione chiusina, due versioni del Busto di Inge di Giacomo Manzù (datate attorno al 1966/67) e un Vaso in ceramica smaltata di Melotti, mentre alle pareti sono appesi dipinti di Massimo Campigli, come La canicola del 1928, arrivato in prestito dall’Olanda. In una sala sono invece esposte le Copertine (Anno 1985) di Alighiero Boetti e le Polaroid della serie Etruschi di Paolo Gioli, realizzate l’anno prima.
Lascio per ultime le opere che da sole basterebbero a giustificare la visita alla mostra. Mi riferisco a quelle che declinano in varie forme il tema iconografico delle figure recumbenti, come Gli amanti di Francesco Messina, l’Odalisca di Arturo Martini, La maschera di Luigi Chessa e gli Amanti antichi di Leoncillo Leonardi. Sono una degna compagnia per l’urna cineraria con defunto del II secolo a.C.
Saul Stucchi
Foto di Portanome per Fondazione Luigi Rovati Milano
Etruschi del Novecento
Informazioni sulla mostraDove
Fondazione Luigi RovatiCorso Venezia 52, Milano
Quando
Dal 2 aprile al 3 agosto 2025Orari e prezzi
Orari: da mercoledì a domenica 10.00-20.00Ultimo ingresso 19.00
Biglietti: intero 16 €; ridotti 12/8 €