Qualche tempo fa, l’amico scrittore Marino Magliani mi chiese se avevo voglia di leggere “un bel libro ligure”. Risposi di sì. Ora che sono arrivato all’ultima pagina, posso dire che “La lingua della terra” (Arkadia Editore), del sanremese Giacomo Revelli (ma il cognome ha risonanze nobilmente etiche anche al di qua dell’Appennino, con Nuto e il figlio Marco), un bel libro lo è davvero – non solo ligure, preciserei però.
Innanzitutto per il tema, di scottante attualità: proprio in questi giorni si è discusso tantissimo (persin troppo polemicamente…) sulla cronica mancanza di mano d’opera nelle campagne italiane, e su come il problema sia stato risolto grazie all’apporto di braccia provenienti dal Sud del mondo.

L’asse portante della narrazione consiste proprio in questo. In un paesino della Liguria di Ponente (e qui la memoria corre inevitabile a Italo Calvino, a Francesco Biamonti, a Nico Orengo…) vive il coltivatore di olivi Bedè. Nessuno, in famiglia, lo aiuta nella conduzione del podere, denominato, in dialetto, “I Lüghéi” (“i lucherini”): né i due figli (il più grande risulta essere il narratore – come si dice con una parolona – “intradiegetico”), che studiano o hanno altro per la testa, né la sorella Cateinìn, con la quale è aperto un contenzioso sulla proprietà dei terreni.
Un giorno, entrando nella baracca a servizio del fondo, vi trova nascosto un giovane di colore, arrivato da chissà dove – ma evidentemente da una terra di contadini, visto che, dopo un po’, inizia a lavorare nelle fasce ulivate, con impegno e competenza, restituendo loro un lustro che non avevano più conosciuto dalla morte di Bacì (il vecchio padre di Bedè e di Cateinìn). Finché l’uomo non viene spinto a riprendere il suo cammino, andando a curare altri uliveti, in Provenza…
Ma su questo tronco principale si innestano tante altre piccole storie – dissidi di famiglia o di bar, vicissitudini universitarie, amoretti di spiaggia… – che conducono in scena un animato, ricco mondo di personaggi, tutti caratteristici e pertanto indimenticabili.
Indimenticabile è pure il dialetto sapido e preciso con cui Bedè si rivolge a chiunque: non solo ai compaesani e ai parenti, alla moglie e ai figli, ma al maresciallo meridionale e financo al nuovo aiutante immigrato – che dimostra di capirlo, in qualche modo.
I discorsi da osteria sono quelli che si sentono quotidianamente ovunque: Aiutiamoli a casa loro, Che se ne stiano là, Vengono qui a portarci via il lavoro (a chi?), Non hanno voglia di lavorare (contraddizione in termini…), Sono tutti ladri e stupratori, eccetera eccetera. Nonostante questo stillicidio continuo di luoghi comuni che gli riempie le orecchie, Bedè tira dritto per la sua strada, fino alle ultime righe, quando prende commiato dallo straniero. Voglio riportare l’intero paragrafo, perché inquadra e giustifica il resto del racconto.
Prima di salutarlo, papà ha provato a dirglielo. Ma non gli è uscito tutto subito, quella parola gli è arrivata da lontano, ha fatto un viaggio lunghissimo, come se anche lei avesse attraversato l’Africa: che finché abiterà nelle olive, non troverà frontiere; che ci saranno guerre nel mondo finché ci sarà chi cercherà di capire dove finisce il tuo e dove comincia il suo; che saperlo lì, fra le olive, gliel’avrebbe fatto pensare vicino, come in questi mesi; che i Lüghéi non è mai stata così bella come da quando ci lavora lui; che, vabbè, ora lui in qualche modo farà, che i suoi figli hanno scelto un’altra strada; che prima o poi qualcun altro troverà uno straniero in campagna, e allora vorrà vedere Sirviu, Caciolu, Catainìn e gli altri cosa faranno; che è un problema più grande di noi, più della mosca, dell’occhio di pavone o delle scigerbue; che ci sono piante cui è inutile potare i getti: tanto continueranno a crescere; che ora che pure lui conosce come si parla ai Lüghéi può capire quella parola che esiste in tutte le lingue: grazie”.
La grande lezione – non di cosiddetto “buonismo”, ma di semplice buon senso – che emerge da queste pagine può essere riassunta in due parole fondamentali, rispetto e gratitudine, secondo un principio evangelico semplice e al contempo assolutizzante: tratta gli altri come vorresti essere trattato tu se fossi al posto loro.
Trascrivo qualche sintetica nota sui cortocircuiti letterari e personali che mi si sono attivati durante la lettura.
La pagina iniziale mi ha ricordato “La malora” fenogliana.
Il rapporto tra il coltivatore e il migrante mi ha fatto venire in mente lo splendido “Tre cavalli”, di Erri De Luca.
“Il sole non s’era ancora levato dalle spalle della collina” (p. 13) è una bella immagine di origine dantesca: “Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, / là dove terminava questa valle / che m’avea di paura il cor compunto, / guardai in alto e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogni valle”.
Gli uliveti visti come “un tempio, una piramide, una torre di Babele” (p. 35) evocano una celebre pagina di Giovanni Boine (“E noi fummo fra gli ulivi come un popolo antico nella sua cattedrale: ogni nostra speranza era lì, ogni nostra sicurezza era lì, negli ulivi”).
I delicati capitoli sui flirt estivi mi hanno riportato all’atmosfera del romanzo di Patrick Modiano “Villa triste”.
La festa popolare raccontata nel cap. 29 mi fa pensare a quella che si celebra, da noi, in cima al Giarolo, la prima domenica di agosto (e qui ci sarebbe da fare una lunga riflessione sul fatto che le montagne siano sempre state collegate al concetto di sacro, perché sono il punto dal quale si fruisce più a lungo della luce solare: ogni religione, in qualsiasi angolo del mondo, comprende nel proprio culto una montagna, e le attuali edicole votive o cippi o statue hanno semplicemente preso il posto di precedenti divinità, che presiedevano agli stessi cammini in quota…).
Magnifiche le descrizioni del bosco – delle luci, dei colori e dei suoni della Natura: deve conoscerla e amarla, chi ha scritto questo.
Il capitolo finale, col viaggio in Provenza, ha qualcosa del luminoso “Vento largo” di Biamonti, dove il protagonista segue un itinerario analogo.
Che dire, a conclusione? Semplicemente questo. Prima riflettevo sulla gratitudine. Ecco, io provo gratitudine verso Giacomo Revelli, per aver scritto questo libro, e verso Marino Magliani, per avermelo segnalato. Ora, a mia volta, lo raccomando ai potenziali lettori…
Marco Grassano
Giacomo Revelli
La lingua della terra
Arkadia Editore
2019, 200 pagine
14 €