Proprio mentre inizio a scrivere su questo libro, una nuova edizione del Diario di Brian Eno, A Year with Swollen Appendices (Jaca Book) concepita per il suo venticinquennale, apprendo la notizia della morte di Jon Hassell, il musicista che ho probabilmente più amato nella vita.
Eno ebbe un ruolo decisivo anche nella sua, perché attraverso le loro collaborazioni il magnifico trombettista (inventore di un “quarto mondo” che risolveva in chiave personalissima e assai sofisticata l’attraversamento di musiche tribali, il massimo di tecnologia e il precipitato migliore dell’avant-garde minimalista) conobbe un pubblico più vasto e influenzò molta produzione musicale successiva.
Il tributo, necessario, non è dunque incongruo con l’esperienza dell’autore del diario in questione, della cui esperienza professionale tutto sappiamo: Eno infatti, il non-musicista, ha contribuito come pochi altri alle musiche altrui – ne parlammo anni fa (“Marco Calloni racconta la musica Before And After Brian Eno”).

Nel 1995 fra i suoi mille progetti riuscì a portare a termine anche quello di tenere un diario: di vita domestica e professionale. Ora, nel venticinquennale, un uomo piuttosto sveglio come lui non poteva fingere di non sapere che molto è successo nel frattempo – basta ascoltare il linguaggio. E le centinaia di parole sconosciute o poco frequentate nel 1995, a partire da Airbnb, Alexa, alt-right, Amazon, Anonymous, Antifa, archistar etc. come Eno ricorda nella nuova introduzione.
Nel Diario la musica ovviamente la fa da padrona; Eno scrive diffusamente di David Bowie (stavano fabbricando Outside) e di altri con cui stava collaborando in quei mesi: il cantante degli U2, Bono Vox (piazza melodie ovunque, incapace di non cantare); i James. E di molti altri en passant: di Scott Walker (Bowie glielo fa ascoltare per telefono) che stima senza poter fare a meno però di sottolineare una profonda distanza artistica; di Lou Reed (“un entusiasmo da ragazzo, tutto-è-possibile e la-vita-è-divertente” – il suo Metal Machine Music viene ricordato come l’altra faccia, ruvida, in effetti macchinosa, delle radici dell’ambient che Eno fa nascere con l’ineffabile, eterea Discreet Music); di Peter Gabriel e la sua grande ostinazione (“è come un esercito, inarrestabile, io sono un guerrigliero, evito le strade principali”): di due newyorkesi seducenti e molto intelligenti come Laurie Anderson e Arto Lindsay.
Del resto, quando lascia New York, Eno sente subito nostalgia di “tanta cultura e tanta vita in movimento”. Per restare in ambito strettamente musicale, specie dalle note riguardanti Bowie, “prorompente d’idee”, emerge un Eno piuttosto apollineo, metodico, bisognoso di strutture (“David se ne sta lì a far nulla per molto tempo e poi scatta per uccidere, mentre io ottengo risultati attraverso processi più lenti, agricoli”). Si definisce brontolone; ma è acutissimo, talvolta sarcastico, attento alla salute – non disprezzabile nuotatore parrebbe; gradisce i buoni ristoranti ma ritiene eccessiva l’energia e il tempo che l’umanità dedica al cibo.
Eno, che quando è a casa – poco in quei mesi – accudisce le figlie piccole, legge con passione Rebecca West e Annie Proulx, osserva e medita casualmente su tutto (“perché nessuno chiede ai vecchi tedeschi esattamente quant’era bello essere nazista?”), non ricambia la stima artistica di Julian Schnabel, né, di nuovo in viaggio, viene sedotto dal troppo vetro della nuova architettura berlinese. In Irlanda invece ha problemi di erezione (sarà “per tutto il cattolicesimo nell’aria”) ma non pare granché preoccupato.
Se si cercano riflessioni meno estemporanee bisogna andare invece alle Appendici (felicissima la scelta di Jaca Book di stamparle su pagine di altro colore per un’edizione assai preziosa): vi spiccano le rifllessioni sul “War Child”, l’organizzazione a scopi benefici nata per aiutare i bambini colpiti dalla guerra dei Balcani. Spinto dalla moglie Anthea, impegnata in prima persona, Eno confessa che alla perplessità iniziale (e in parte sopravvissuta davanti a spettacoli opportunistici o inutili) ha fatto seguito la volontà di partecipare attivamente: davanti alle vittime di quella guerra e all’inerzia degli intellettuali impegnati a cercarne le ragioni storiche “non reagire, secondo me, era come veder un uomo cui stanno sfracellando la testa con un martello e ascoltare pazientemente l’aggressore che, mentre insiste con le martellate, ci racconta la vita difficile che gli è toccata”. Semplice, inattaccabile.
E poi il racconto – stranoto – di come nacque l’ambient music (opposta alla Muzak, eppure molti all’epoca, seconda metà degli anni Settanta, non capirono la differenza); un’analisi rapida e implacabile sull’inutilità (e il successivo, veloce fallimento) dei CD-Rom, dispositivi nati già vecchi (ci cascò persino Umberto Eco – col progetto dell’Encyclomedia – Eco, che quanto all’utilizzo delle nuove tecnologie era di certo molto più avanti della comunità umanistica italiana), e, forse più interessante, un vero saggio che a partire da un’opera di Cornelius Cardew, ragiona sulle differenze fra tecniche compositive (e modalità esecutive) della musica sperimentale e quelle di una partitura classica a opera di strumentisti “istruiti”, com’è paradigmatico nella gestione orchestrale.
Eno rigetta l’accusa di indeterminazione a carico della prima, e mette in evidenza piuttosto l’articolata possibilità di variazioni a sua disposizione, dipendenti, in maniera ben più significativa rispetto a una partitura classica da “condizioni ambientali, fisiologiche e culturali che investono il brano al momento dell’esecuzione”.
Per chi non lo avesse letto a suo tempo, un libro – non di rado anche divertente – utile a capire il lavorio di teorico di Eno, compreso quello sottostante all’impresa, oggi troppo compromessa con l’aria fritta ma per colpe non sue – che definiamo genericamente ambient music.
Michele Lupo
Brian Eno
Diario. A year with swollen appendices
traduzione di Paolo Bertrando
Jaca Book
2021, 480 pagine
30 €