Nelle ultime settimane, in Italia, e per fortuna, balordaggini e deliri da cancel culture se ne sono sentite di meno. Ci piacerebbe pensare che sia il classico risveglio successivo a una sbornia, la consapevolezza di una deriva inarrestabile di fronte alla quale il fanatismo woke conosca un impeto di soprassalto ed esclami: ahia, forse abbiamo esagerato.
Tuttavia, il timore è che sia un accidente casuale, del tutto contingente. E credo condiviso da molti, per esempio dal latinista Mario Lentano, studioso dell’Università di Siena di storia romana, teatro antico e retorica, che nel denso volumetto Classici alla gogna della Salerno Editrice si concentra in specie sul presunto razzismo dei romani, ossessione che pervade alcune università americane anche di studi classici, dalle quali ci si aspetterebbe uno strumentario conoscitivo più affilato di quello in carico ai movimenti per i (sacrosanti) diritti civili che però spesso immettono nell’attivismo politico questioni di storia culturale senza filtri di alcun genere e in sostanza senza saperne granché.
Ora, sottolinea lo studioso, il principale discrimine dell’ideologia razzista dell’era moderna (lo sa ogni bravo liceale) rispetto ai pregiudizi e alle diffidenze che popoli antichi (greci e romani compresi) nutrivano verso gli altri, è la mitologia (perché di questo si trattava) del sangue. Manca appunto agli intolleranti vittimisti della cancel culture la percezione di questo scarto, fra l’assunto – farlocco e tragico insieme – del principio biologico che statuiva una supposta inferiorità altrui quale condizione innata e determinata geneticamente – e il pregiudizio etnico, certo non incolpevole ma nemmeno paragonabile ai deliri che provocarono la Shoah.
Non è un caso che la cancel culture sia nata negli USA, paese di discriminazioni razziali storiche ma anche più facilmente corrivo rispetto alla tradizione europea quando si tratta di affrontare temi storiografici complessi – la disinvoltura con cui greci e romani vengono liquidati quali matrici di ogni discriminazione o persecuzione futura farebbe ridere se non fosse preoccupante. Specie se a capo di una crociata del genere trovi personaggi come Padilla Peralta, un tale che di mestiere fa il docente a Princeton.
Forse gli gioverebbe un ripasso nelle nostre università, o magari leggere un libro come questo di Lentano, che attraverso molteplici esempi tratti dalla storia e dalla letteratura romana mostra come la cancel culture non sia in grado di negoziare con le stratificazioni storico-culturali senza le quali non comprendiamo ciò leggiamo del passato. Perché non è in questione che anche i romani potessero guardare e agissero con sospetto – e peggio – verso chi romano non era; intanto, verso gli ebrei non furono gli unici persecutori, laddove l’ostilità verso i Cartaginesi non poteva non risentire del conflitto che li aveva impegnati a lungo.
Il punto, sostiene Lentano, è che i romani non definivano se stessi in quanto bianchi: il nero era genericamente associato agli Etiopi ma si trattava di una parola senza particolari connotazioni negative che invece emergeranno col Cristianesimo. Per i romani il nero era legato al lutto, al cattivo augurio, alla superstizione, mentre con le crescenti sette cristiane il nero (compreso quello africano) si associa a Satana. Il passo non è breve.
Penne affilate come quelle di Giovenale e Marziale nei loro assalti satirici sfottevano personaggi implicati in storie di corna desumibili da figliolanze ibride, pargoletti neri compresi: l’onta non era dovuta al razzismo ma al fatto che il colore nero portasse sfiga, o, più seriamente, che indiziasse un rapporto carnale con persone non libere – ma la vicenda dell’accesso alla cittadinanza romana nei suoi vari sviluppi non contempla fattori razziali. Gli “Etiopi” erano semplicemente nati più a sud, scottati dal sole e più scuri. Né il più leggero Ovidio si sarebbe fatto tanti scrupoli: “Venere risulta gradevole anche in un colorito bruno”.
Dalla cancel culture discende la tragicomica stramberia per cui ogni alterità rispetto all’ideologia più condivisibile del momento diventa inammissibile e che l’ingenuità di una lettura a ritroso al tutto ideologica e superficiale si traduce nel massimo di intolleranza da parte di chi guarda con sospetto qualsiasi nemico della diversità.
In questo modo, autori o libri o intere popolazioni vengono esclusi a priori dal consesso civile ossia dalle scuole o dalle università. La cancellazione dalla memoria storica pretende di stilare classifiche di inumanità e collocare la tradizione romana in prima fila – peraltro, se l’arte della Germania nazista ci avesse lasciato qualcosa di più dei film di Leni Riefenstahl, ce la saremmo tenuta volentieri.
Né valeva come stigma razziale capovolto il noto elogio che della Germania fece Tacito, più che altro una sollecitazione ai suoi contemporanei a recuperare i sobri valori che il mito consegnava alla Roma delle origini e che andava perdendo. Senza dimenticare che ben prima di Rousseau o Diderot i romani coltivavano anche un altro mito, quello del “buon selvaggio” – l’immaginifica condizione di purezza primordiale e incontaminata evocata dal sintagma in questo caso si riferiva a popolazioni stanziate dentro coordinate geografiche distanti dai porti romani.
Che dire? Un po’ meno di ideologia cieca e un po’ più di lucida filologia sarebbe necessario.
Michele Lupo
Mario Lentano
Classici alla gogna
I Romani, il razzismo e la cancel culture
Salerno Editrice
Collana Aculei
2023, 136 pagine
18 €