All’inizio, negli anni a ridosso della guerra, ovvero dell’Olocausto, nessuno voleva saperne nulla. Si tendeva a rimuovere; sappiamo come di questa disposizione umana, troppo umana, fece le spese Primo Levi: la pubblicazione di Se questo è un uomo non fu facile. Una volta aperto il tappo, il racconto della Shoah con gli anni invece è deflagrato, su molteplici versanti: saggistica storica e filosofica, memoriali, diari, poesie, cinema, persino racconti di finzione, contraddicendo clamorosamente l‘interdetto adorniano sull’impossibilità di fare poesia “dopo Auschwitz”.
Non appaia cinico: se è vero che la saggistica (compresa l’analisi politica – basti pensare al contributo decisivo che l’idea stessa del lager nazista ha fornito all’approccio biopolitico) e il racconto delle esperienze dirette dei campi sono imprescindibili, negli anni si è registrato sull’argomento una messe di pubblicazioni di secondo e terzo piano, quando non del tutto avventizie. Come fosse diventato un genere, peraltro difficilmente criticabile per l’ovvio ricatto emotivo che porta con sé, per quello statuto di Male Assoluto non discutibile ma alla lunga accecante anche fuor di letteratura: la tragedia di questi mesi a Gaza ne è palmare conferma.

Un aspetto tuttavia nella narrazione del progetto di sterminio ha faticato a emergere, per pudori e imbarazzi tanto ovvi da farlo sembrare scabroso – quello relativo alla sessualità. In Schindler’s List, film che ha ormai trent’anni di storia, un ufficiale nazista si porta a letto una ragazza ebrea, più volte, in una stanza dalla cui finestra controlla il campo di concentramento e si diverte a sparare dall’alto ai prigionieri che non gli sembra stiano facendo il loro dovere. Colpiva il fatto che il gerarca mostrasse tenerezza verso la ragazza, come se egli stesso non sapesse bene cosa stava facendo, se facesse l’amore con un essere umano a tutti gli effetti, se tale potesse considerarsi la ragazza.
Potremmo ipotizzare, vale a dire, che il tabù sesso-Shoah prima che nel racconto sia stato un dilemma nella pratica stessa di chi di quella storia ne fatto esperienza? Con il tempo la faccenda si è fatta meno pruriginosa, ed è apparso evidente come l’imbarazzo di fare sesso con un’ebrea non avesse impedito a molti nazisti di non farsi troppi scrupoli. Lo si può constatare anche nel recente film La zona di interesse.
Ora, un libro recentemente rimandato in stampa da Mimesis, I bordelli di Himmler. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, in realtà uscito nel 2006, che lavora sul tema per l’appunto assai negletto dagli storici di professione – e in generale dalla ricerca anche in chiave finzionale – della dimensione sessuale all’interno dei campi di concentramento nazisti, ci mette davanti se non a un tabù a un rimosso inverso: quello delle donne obbligate a prostituirsi nei lager.
Himmler, uno degli uomini decisivi della stretta cerchia de Führer, pensò a un certo punto che garantire momenti di vita sessuale avrebbe potuto incrementare la produttività dei prigionieri – di alcuni, evidentemente, quelli che sembravano poter garantire sforzi maggiori: una sorta di premi-produttività.
La ricostruzione di questi fatti è opera di tre persone, Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg, che nelle pagine iniziali ricordano come le vittime dell’abuso sessuale facciano anche ora fatica a portare alla luce le voro vicende, nel caso specifico contribuendo incolpevolmente a lasciarle in una zona oscura e poco nota.
Come tutti gli apparati gestiti dalle SS, anche l’uso e il controllo della prostituzione era sottoposto a una rigida quanto capillare organizzazione. In particolare ad Auschwitz, ma anche a Dachau o a Buchenwald etc, negli “edifici speciali” (Sonderbauten) in cui avvenivano gli incontri si stabilivano orari e tariffe nella stessa ottica in cui operava la macchina dello sterminio: massima efficienza. C’erano liste apposite, visite mediche, contabilità oraria e persino l’obbligo alla sola posizione del missionario. Metodo e produttività regolavano il ritmo del piacere e delle vicine camere a gas.
Nell’ossessione totalitaria del nazismo anche la vita sessuale doveva finire sotto il controllo dello Stato. “Violenza sessuale” scrivono gli autori, “manifestazione della propria volontà di dominio, era funzionale all’umiliazione del nemico e fu attuata come strumento di tortura”.
Le donne dei territori limitrofi ai lager venivano consegnate al piacere degli internati selezionati allo scopo – i kapò per esempio – ma anche ai soldati nazisti. Beninteso, dopo essere state “testate” dalle SS, ovvero “violentate”. Venivano inoltre sottoposte a pratiche mediche dubbie e pericolose per non rimanere incinte e provocare infezioni.
Il fatto che potessero sottrarsi così all’uccisione immediata o godere di alcuni privilegi rispetto al resto della popolazione avviata allo sterminio, le rese invise agli altri internati e anche questo non le avrebbe aiutate in seguito a farsi riconoscere come vittime particolari.
Si trattava di ragazze per lo più provenienti dalla Polonia, dall’Ucraina, non ebree – queste ultime, come si è visto, potevano diventare oggetto di piacere per iniziative personali, di singoli ufficiali, per lo più lontano da occhi altrui.
Spesso alle donne che venivano abusate nei bordelli si prometteva la libertà e qualche forma di risarcimento una volta finita la guerra, sapendo benissimo di mentire. Anche senza questi miraggi, con la sola alternativa delle camere a gas, per molte donne la schiavitù sessuale significava un grado in meno di disperazione. Però restava schiavitù sessuale. Quanto al futuro, sarebbero rimasti ostracismo e vergogna.
Michele Lupo
Baris Alakus, Katharina Kniefacz, Robert Vorberg
I bordelli di Himmler
La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti
A cura di Andrea Gilardoni
Mimesis Edizioni
Collana Passato prossimo
2024, 224 pagine
18 €