Non è raro – litote per: è piuttosto frequente – imbattersi, durante la visita di un museo, in qualche fotografia o documento d’epoca che racconti di oggetti d’arte o reperti archeologici messi in pericolo da un avvenimento bellico. A volte le opere sono presentate mentre vengono messe in sicurezza (pio proposito che non sempre si dimostra all’altezza delle aspettative alla prova dei fatti, ahinoi) in nascondigli, bunker e caveau di banche.
Quello della fragilità delle opere d’arte è un tema che insieme mi affascina e mi preoccupa. La storia e la cronaca sono piene di testimonianze di quanto siano fragili le opere dell’ingegno dell’uomo, molto più deboli delle sue invenzioni peggiori, ovvero le armi.
La mostra che ho visitato qualche mese fa all’Institut du Monde Arabe di Parigi, intitolata Trésors sauvés de Gaza. 5000 ans d’histoire, punta l’accento su quanto (poco, molto poco!) si è riusciti a salvare del plurimillenario patrimonio archeologico di Gaza.

Ripensavo a quella esposizione e a tante altre di tema analogo viste nel corso degli anni mentre giravo per le sale del Museo Archeologico Nazionale di Atene, a chiusura delle vacanze in Grecia.
Al piano superiore, gran parte dedicato alla sterminata raccolta di vasi, mi sono imbattuto in un pannello con la riproduzione di una fotografia scattata nei primi anni della Seconda guerra mondiale, coincidenti con l’invasione italiana della Grecia. Qualche giorno fa segnalavo, nell’articolo sul sito archeologico di Asìni, le postazioni dei nostri soldati all’interno dell’area dell’antico abitato, tra resti elladici, ellenistici e romani: ennesimo esempio della fragilità delle opere e dei luoghi storici.
La foto al Museo Archeologico Nazionale immortala cinque persone intente a imballare due grandi vasi. Il pannello non li identifica, ma è facile individuarli nella collezione. A pochi passi dal cartello c’è la grande anfora al centro della fotografia.
Datata al periodo geometrico tardo (750 a.C. circa), presenta una scena di esposizione del defunto (prothesis). Tra le spalle dei due uomini seduti sul pavimento, in mezzo alla paglia per l’imballaggio, s’intravede il corteo funebre.

L’anfora è attribuita al Pittore del Dipylon, il cui vaso eponimo (ovvero quello che dà il nome convenzionale all’artista) è esposto al piano terra: è uno dei pezzi più celebri dell’intero museo. Questo enorme vaso venne trovato ad Atene, in un lotto di terreno appartenente alla famiglia Sapountzakis (per questo gli archeologi si riferiscono a quell’area come al Sapountzakis’ plot)
L’unica donna della foto, invece, si appoggia a un pithos – ovvero una grande giara per l’immagazzinamento – realizzato in una bottega cicladica. Sul collo è raffigurata la Signora degli Animali, attorniata da due leoni ruggenti. Le fasce delle spalle e del corpo sono rispettivamente occupate da caprioli che avanzano e da cervi al pascolo. Il vaso venne rinvenuto a Pyri, Tebe (Beozia) e viene datato attorno al 675/650 a.C.
Come potete constatare dalla foto qui sopra non si può dire che abbiano superato indenni i millenni. Ma il pericolo più grave l’hanno corso meno di un secolo fa.
Saul Stucchi
Museo Archeologico Nazionale
28is Oktovriou 44
Atene
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