I lettori fedeli del poeta e scrittore Paolo Del Colle aspettavano da diverso tempo il suo ultimo libro. Perché Del Colle lo ha negli anni anticipato con post vertiginosi che scuotevano all’improvviso l’andamento quotidiano di FB, e illuminavano la memoria di film visti per la prima volta molti anni prima – la memoria e, con essa, un possibile senso, una visione più vera.
Quei frammenti (che il sottoscritto copiava e incollava in una cartella “Del Colle-Herzog” perché alla stima per lo scrittore romano – il quale dice di detestare la capitale – accompagna(va) l’amore per il cinema del grande regista tedesco, specie quello degli anni Settanta) preparavano “Il cavallo di Aguirre”, il romanzo uscito un mese fa per Castelvecchi.
Anche nelle pagine del prosimetro “Nuda proprietà”, il libro precedente, il lettore un po’ addestrato aveva la sensazione che nessuna opera critica avvicinasse la “verità estatica” del cinema di Werner Herzog quanto Del Colle, che critico di professione non è ma vede come pochi.
Ora, con una certa, iniziale sorpresa di chi scrive, quello che si annunciava come un saggio – sebbene sui generis – si è trasformato in un’opera di finzione (felicemente sui generis anch’essa, va da sé). Invece, era forse inevitabile che un’ossessione come quella di Del Colle per il cinema di Herzog sfociasse nella forma di un dialogo tra lo scrittore e il regista, in una scrittura più aperta e problematica dello studio critico, perché un’ossessione implica una resa dei conti con l’oggetto che lo fa precipitare ben oltre il mero dato artistico, e finisce nella vita “vera” di chi la subisce.
Ecco dunque “Un incontro mai avvenuto con Werner Herzog”, come recita il sottotitolo, una conversazione immaginaria intorno al tavolo di un bar nella cui finzione gesti pause sguardi non hanno solo una funzione di raccordo ma forniscono suggestioni ulteriori e vanno oltre il cinema.
Che ne dici Paolo, partiamo da qua? All’inizio, ti confesso, ero un po’ perplesso verso questa soluzione “romanzesca”. Solo andando avanti nella lettura ho colto quanto la situazione – il faccia a faccia nel bar – stratificasse altri livelli di significato, per lo più direi relativi a una tua biografia mentale e a una tua idea di mondo.
Hai ragione. Quella stratificazione è possibile proprio perché è un romanzo. È una biografia mentale intesa come resa dei conti, un bilancio esistenziale possibile solo grazie alla soluzione romanzesca; la finzione permette di essere più spietati con se stessi. È chiaro che per me è il libro della vita, quello che da quaranta anni volevo scrivere e poi è nato per caso, quando mi sono reso conto che un saggio critico mi lasciava insoddisfatto, anche per una mia incapacità; allora buttai giù poche pagine su un incontro con Herzog, quasi come congedo dall’idea di scrivere su di lui, poi quelle poche pagine sono diventate questo libro.
Ora posso dire che la soluzione narrativa era il solo modo per rappresentare cosa sia stato ed è Herzog nella mia vita, far sì che il personaggio-io dialogasse con lui e con se stesso, e che in qualche modo nel frattempo mutassero entrambi: è una visione del mondo che costruiamo insieme e che il protagonista deve più volte mettere in discussione, ma ciò vale anche per Herzog: la stazione in cui si incontrano diventa un luogo mentale, una possibilità di pensiero.
Definendolo in sintesi, è un libro di solo amore: per Herzog, per la verità, per chi ho amato, per chi ho perso, per gli amici e alla fine anche per me stesso. Ho sempre scritto in prima persona, ma qui diventando un personaggio per la prima volta riesco a vedermi senza rancore, ad accettare la mia vita, qualunque sia il giudizio, non certo positivo, che poi ne do.
Trattandosi di finzione direi che siamo di fronte a una rete indecifrabile in cui “le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità”, per dirla con Anassimandro: prima dell’autore – e dell’interlocutore – empirico, prima di Del Colle e Herzog ci sono i loro “personaggi”. Una stratificazione aggiuntiva.
Come dicevo, per la prima volta l’io deve diventare un personaggio e confrontarsi con un altro, anch’esso ‘doppio’ di una persona reale. Questa stratificazione è ciò che permette il dialogo e la sua libertà. Se, sia Herzog sia io, siamo dei personaggi, devi poi seguire i mutamenti anche non previsti, che il dialogo e le reazioni sollecitano in ognuno dei due.
Lo svolgimento non aveva uno schema prefissato, voleva proprio seguire queste improvvise deviazioni che un dialogo faccia a faccia, con le reazioni anche semplicemente fisiche di entrambi, proponeva. Si trattava di approfondire, senza paura, anche quando andare avanti procurava le vertigini e non sapevo a cosa mi avrebbe portato.
Di una cosa ero certo, doveva essere un dialogo che avrebbe cambiato entrambi: questa era la ‘storia’ che volevo raccontare. Certo le parole di Herzog non potevano che riprendere quello che aveva già detto, ma volutamente non ne ho mai controllato l’esattezza, sono andato a memoria, oltre a quelle inventate che ho inventato.
Se ne esce una mia visione del mondo, è vera nell’occasione che si è creata nell’incontro, non c’era prima e non lo è più probabilmente finito il libro. Dopo ogni libro c’è la vita per cui tutto ciò che abbiamo detto non basta mai.
Forse anche per questi aggiustamenti, slittamenti e nascondimenti continui nel corso della conversazione (la piega che prende la tua cravatta, le frasi non dette, l’acqua versata nei bicchieri ecc…) la scrittura di questo libro mi pare assumere un andamento wagneriano (ma di un Wagner senza enfasi o magniloquenza, anzi): intendo quell’inquietudine, quel vagare struggente del Tristano intorno a un centro tonale, che sia esso il punto in cui il vostro dialogo trova la misura esatta dell’accordo, o sia proprio lo shining di quella “verità estatica” che è il cuore del cinema herzoghiano.
Spesso sembra che si ritorni su cose già dette, ma in realtà vi sono sempre continui spostamenti, alle volte introdotti dai quei movimenti o gesti che ricordavi, si gira attorno alla verità estatica, indubbiamente, cercando di approfondirla sino alle estreme conseguenze, magari non accettate dallo stesso Herzog.
Tutti i particolari che hai citato assumono un significato, anche perché, in rispetto alla forma romanzo, sono sempre convinto che ogni particolare deve trovare il suo posto, non essere abbandonato. Qualcosa di struggente indubbiamente c’è, e il vagare wagneriano può essere giusto, se inteso come inesausta ricerca di una verità da cui ci si allontana e ci si avvicina, perché altro non possiamo fare.
La visione estatica, quella che per Herzog va oltre i fatti, è centro delle riflessioni anche quando non se ne parla direttamente. Io la leggo come una assoluta fede nel dato di realtà, in cui si apre, si mostra, il mancamento, l’ignoranza di noi uomini in quanto soggetti/oggetti. Io la definisco una lacerazione, anche se Herzog non è d’accordo, ma è quello spazio che sin dall’inizio permette il dialogo e in fondo rende lo stesso incontro una verità estatica.
A proposito di rimozione, fai dire a Herzog che detesta la psicoanalisi. Anch’io credo che abbia perso la centralità di un tempo, e che l’abbia persa giustamente. Mi interessa il tuo punto di vista sulla faccenda, anche alla luce del fatto che durante l’incontro aspetti che arrivi il momento giusto per regalargli un tuo libro, e quando arriva, ti accorgi che lo hai dimenticato a casa. E il fatto non sembra casuale.
… Mi hai pizzicato in un classico lapsus. Il libro chiaramente non volevo darglielo. L’avversione di Herzog per la psicoanalisi è reale, qui viene trascinata in un discorso che cerca una verità in cui l’io abolisce la psicologia, i suoi personaggi sono sempre oltre l’io individuale e il trauma è sempre qualcosa che appartiene al mondo, non a loro, le visioni vanno sempre al di là di ogni storia individuale e per questo diventano uniche. Per quanto mi riguarda Freud lo considero un genio, però ritengo che la psicoanalisi rientri nel quadro di una cultura che vuole curare e guarire, mentre l’arte, in generale, credo debba ‘salvare’ il mondo.
Per tornare a Herzog; c’è il regista che ha un ruolo di primo piano nella storia della cinematografia mondiale, amato da molti, e c’è un Herzog che sembra essere in assoluto l’artista che più ha inciso nella tua vita. Quanto coincidono?
Pochissimo. L’importanza per la mia vita di Herzog che alla fine confesso interamente è vera, mi ha salvato la vita. Non è semplice amore per un grande regista, è una complicità, un interlocutore che ho sempre sentito vicino, un maestro nel senso antico.
Non so spiegarlo perché lo capisco poco pure io, ma provo una immediata empatia con le sue immagini, con quello che dice, come se mi indicasse sempre una strada che cercavo e non riuscivo a vedere. Un amante del cinema rifiuterà questo libro e forse anche un amante del romanzo. Ma pormi fuori da ogni logica che non fosse quella di seguire un pensiero in movimento e che questo fosse comunque narrativa, era ciò che volevo.
Se uno stile è una visione, ammesso sia possibile collegare linguaggi diversi, trovi (o hai cercato) dei punti di contatto fra il tuo con quello di Herzog?
…In tutto ciò che ho scritto ho cercato di fissare la visione del mondo propria di quel momento, unica e irripetibile, una visione che è sempre una costruzione del mondo che non coincide con quello in cui si vive. Pur essendone immerso, e questo credo sia molto vicino a Herzog. Una visione che sia fuori della follia del mondo e fuori anche della follia di ognuno di noi. Come dice Herzog solo una visione può salvare il mondo, perché una visione è all’origine di tante storie incompiute, è la possibilità di poter ancora parlare.
Trovo significativo che già in Aguirre ci sia la scena della barca rovesciata sugli alberi dopo che ormai il viaggio è diventato un procedere verso la distruzione. L’epica di Aguirre è improvvisamente messa in discussione, qualcuno ha già tentato quella via, lui sta ripetendo qualcosa che è già avvenuto. La nostra distruzione è già avvenuta e per questo si può ancora lavorare, perché il futuro è avvenuto e ne sappiamo il percorso e questo può permettere ancora un cambio di rotta o l’infinita follia di ripeterlo.
E sul piano delle normali influenze letterarie quali sono stati i tuoi nomi di riferimento, poeti o narratori?
Sai bene che è difficile affermare una influenza precisa, alle volte credi di scrivere nel solco di un Autore che poi nessuno troverebbe presente. Per cui sarò breve e banale: Dostoevskij è lo scrittore che come si dice mi ha salato il sangue, devo rileggerne ogni tanto dei brani, mentre per il senso di una pagina satura di se stessa nell’impossibilità di esaurire uno spazio mentale o esistenziale, i nomi sono Proust e Shabtai: pur sapendo che sono molto diversi.
Per la poesia ne amo tanti, senza distinzioni tra antichi e moderni, ad esempio “Il moto delle cose” di Pontiggia avrei voluto scriverlo io, per cui ti dico solo un nome, a cui del resto ho dedicato l’unico premio che abbia vinto: Cavalcanti.
Milan Kundera ha scritto da qualche parte che il modo cui avremmo trattato i cani ci avrebbe dato la misura di ciò che siamo. Su FB molto spesso segnali casi di animali abbandonati. Superficialmente – penso anche al bellissimo romanzo “Spregamore” – si direbbe che “la questione ti stia a cuore” – credo però che per te (come per Herzog) sia in gioco qualcosa di molto più profondo di un pur lodevole “amore per gli animali”.
…Certo, più volte affermo che gli animali vedono ancora il Paradiso, sono la prova che lo abbiamo accanto e non lo vediamo, forse lo costruiamo senza saperlo, e mi affascina cercare di capire come siamo guardati da loro, diventare come dicevo per la visione estatica, soggetti/oggetti, che scoprono la libertà della mancanza di giudizio sulle cose; Herzog non ha empatia con gli animali, ma proprio per questo nella sua opera appaiono spesso enigmatici, portatori di un’altra visione, una visione in cui forse noi non ci siamo o non ci saremo più o non saremo mai stati. Un’altra storia, un’altra visione, a cui credo tenda l’ultima fase del lavoro di Herzog.
Michele Lupo
Paolo Del Colle
Il cavallo di Aguirre.
Un incontro mai avvenuto con Werner Herzog
Castelvecchi
2020, pagine 128
15 €