L’editoriale “L’ALIBI della domenica” di questa settimana è dedicato a una mezza giornata trascorsa a Losanna prima dell’emergenza Coronavirus.
Alla fine di febbraio ho fatto un breve viaggio a Losanna. Da allora è passato poco più di un mese ma tutto quello che è successo nel frattempo (e che sta ancora accadendo in tempi e sviluppi che nessuno è in grado di prevedere) costituisce uno spartiacque che già divide la vita di ciascuno di noi in un prima e in un dopo. La vita prima e dopo il Coronavirus, almeno se saremo tra i fortunati a poter scandire il tempo in questo modo.
Il 25 febbraio la Stazione Centrale di Milano mostrava i primi effetti di quella che allora pareva una psicosi più che una pandemia. Nella sala d’attesa davanti ai varchi d’accesso ai binari le panchine erano vuote. Una visione davvero inconsueta che mi ha colpito più delle mascherine che già qualcuno indossava. In treno ho iniziato a leggere “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino. Comprato diversi anni fa, sembrava che non arrivasse mai il suo turno. Ed ecco, invece…
Arrivo a Losanna
Il viaggio è stato tranquillo. Solo un po’ di ritardo. Dopo aver depositato il leggero bagaglio all’Hôtel des Voyageurs, sono andato al Café des Artisans per il pranzo. Il mio francese è talmente cattivo che mi ha provocato un’incomprensione con la cameriera a cui ho fatto l’ordinazione. Per fortuna me ne sono accorto in tempo e potuto rimediare, così da avere l’agnello che avevo intenzione di mangiare al posto del piatto di pesce che stavano preparandomi in cucina.

Utilizzando la pratica Lausanne Transport Card, ho preso l’autobus per Pully, comune alle porte di Losanna. Qui ho dovuto chiedere indicazioni per trovare il Musée d’Art. Il signore ha cui ho domandato mi ha risposto con una domanda: “Quale museo?”. L’ho considerata prova della sottile ironia svizzera, dato che Pully ha solo UN museo. La bella mostra intitolata “Paris en fête” l’ho raccontata nella recensione “Toulouse-Lautrec, Dufy e gli altri: Parigi in festa a Pully”.

Nel tardo pomeriggio sono rientrato a Losanna. Per prima cosa ho preso un caffè monorigine Etiopia nel minuscolo “The Coffee Project” in Rue du Grand-Pont, a pochi passi dal mio hotel. È uno dei pochi posti in città dove si può gustare uno specialty coffee.
Lungolago di Ouchy
Ho poi preso la metropolitana per andare in riva al Lago Lemano. Ricordo che la prima volta che ci salii, anni fa, non avevo ancora viaggiato sui treni automatici della rete di Torino e a Milano non era stata ancora aperta la linea 5. Nonostante non sia più una novità, mi ha fatto comunque un certo effetto viaggiare sul convoglio automatico che dal centro porta al lago. Gradevole e un poco conturbante l’assenza dei tornelli all’ingresso e all’uscita.
Vicino al semaforo pedonale fuori dalla stazione della metro c’è un piccolo monumento – non bellissimo, a parer mio – con il display che indica il countdown per la prossima Olimpiade. Al momento del mio passaggio segnava 149 giorni, 18 ore e 35 minuti. Un mese dopo sappiamo che questo orologio svizzero è in ritardo di un anno: le Olimpiadi di Tokyo, infatti, si terranno nel 2021, anche se manterranno il nome “Tokyo 2020” (per non buttare a mare tutto il merchandising?).

Il Lemano era sovrastato da nuvole basse cariche di pioggia, masse scure in forte contrasto con i pochi sprazzi di grigio chiaro sulla tavolozza del cielo. Le scacchiere di strada davanti al porto mi hanno fatto pensare alla pagina di “Diceria dell’untore” in cui Bufalino accenna alla partita passata alla storia come “L’immortale”. La giocarono a Londra il 21 giugno 1851 Adolf Anderssen e Lionel Kieseritzky. Anderssen la vinse sacrificando temerariamente le torri e la regina. Cercatevi la storia della partita: è pura epica.
Passeggiata tra le statue
Perdonatemi se da quel vertice di strategia devo planare sul guano dei gabbiani. Uccelli irrispettosi avevano lasciato il segno sulla statua di Giovanni Capodistria, omaggiato invece dai fiori della Federazione Russa e dell’Ambasciata Greca. La targa sotto il busto recita: “Diplomatico eminente e uomo politico russo. Primo cittadino d’onore del Cantone del Vaud e primo “bourgeois d’honneur” di Losanna. Primo Presidente della Grecia”. Ma i gabbiani non sanno leggere e per loro una testa vale una testa, anche se è di Capodistria.

Con queste considerazioni per la mente, ho proseguito la passeggiata. Mi sono soffermato poco dopo, davanti al gruppo “Femme à l’enfant” di Nicolas Delémont (1991). Ricordo di aver pensato che l’umana intimità dell’abbraccio contrasta con i volti da marziani delle due figure. Se volete informazioni sulle opere esposte negli spazi pubblici di Losanna, potete consultare il sito www.art-en-ville.ch.
Io ho guardato gli agglomerati di abitazioni sparsi sulle rive del lago, cercando d’identificarli con l’aiuto del disegno riprodotto sul cartello “à la découverte des terrasses de Lavaux”, ma senza risultati.

Più avanti la “Vierge du Lac” sembrava sfidare il rigore invernale (e la pruderie svizzera) esponendo sfrontatamente e orgogliosamente la sua nudità. La statua è stata offerta alla città di Losanna da una sottoscrizione pubblica. Lo dice la targa cementata a terra che riporta anche la firma dello scultore “Vincenzo” e la data 89 (ovvero 1989). Cercando in rete ho scoperto che l’opera è stata realizzata dall’artista svizzero Vincent Adrien Robert Kesserling direttamente dove si trova, davanti agli occhi del pubblico di passaggio.
Sul muretto del lungolago è un susseguirsi di schede che rievocano la storia del Quai de Belgique e del Quai d’Ouchy: le feste della navigazione, le teste coronate e gli ospiti illustri che ne frequentavano gli hotel, tra cui Winston Churchill e Gregory Peck, ma anche i trattati di pace, le conferenze internazionali e le imprese degli idrovolanti.
Il Museo Olimpico
Tende le mani in avanti la statua del “Belgio riconoscente”, posta a eterna memoria dell’opera d’accoglienza di Mary Widmer-Curtat e del Comitato Svizzero di Soccorso, prestata ai rifugiati belgi durante la Prima guerra mondiale. Poco più avanti c’è lo spettacolare Museo Olimpico. L’avevo visitato nel 2015 per l’inaugurazione della mostra “The Olympic Games: Behind the Screen”.
Ho passeggiato tra i monumenti disseminati qua e là, a cominciare da “L’Elan” di Nag Arnoldi (1994) che si erge sul lungolago proprio di fronte alla fontana del Museo. Ho salito la scalinata che sul profilo dei gradini riporta i nomi dei tedofori delle varie edizioni dei Giochi (1996 Atlanta M. Ali. – 1998 Nagano M. Ito – 2000 Sidney C. Freeman…).

Prima che calasse il sole ho avuto il tempo di scattarmi un selfie nella cornice con la scritta “Olympic spirit, are you there?” e di sostare davanti all’omino della pioggia di Folon. E ho sfidato nientemeno che quel fulmine umano di Usain Bolt sulla distanza dei 100 metri.
Il tempo impiegato dall’illuminazione per coprire la pista corrisponde al tempo registrato da Bolt ai Campionati del Mondo di Berlino del 2009: 9,58 secondi. Cronometro alla mano (sullo smartphone) io ci ho messo 1 minuto 19 secondi 87 centesimi, al passo di giornalista culturale con posa da flâneur. Fosse vero il paradosso di Achille e la tartaruga ideato da Zenone, avrei comunque battuto Bolt. Qualcuno dovrebbe avvisare gli sponsor.

Dopo aver salutato il barone de Coubertin, immortalato nel bronzo da Jean Cardot (1991), ho intrapreso il ritorno verso il centro della città. La lunga camminata mi ha messo appetito che ho placato gustando la cucina del territorio proposta da “Pinte Besson”, a pochi passi dall’hotel.
Saul Stucchi