Parliamo di due bei libri de il Saggiatore da poco usciti, Lezione di cinema di François Truffaut e Le estati (quasi) felici di Gustav Mahler, lavoro di Piero De Martini.
In comune i due titoli hanno il fatto che in qualche modo (specie nel primo, a dir il vero) osserviamo i due grandi artisti al lavoro. Truffaut, che dopo anni di rifiuti cede finalmente alla richiesta insistita di un celebre critico del cinema, Jean Collet, per una serie di interviste elaborate in diretta rivedendo i suoi film; il secondo alle prese con le estati creative del musicista, fra i paesaggi dell’Attersee, un lago austriaco stretto fra alte montagne e colline, e in Carinzia, nei pressi di un altro lago, il Wörthersee.
Piero De Martini si cimenta con l’ennesimo bel volume su musicisti e mondi che li circondano. Qui, i laghi, i boschi, e montagne più che fare da sfondo all’ispirazione mahleriana sembrano elementi centrali dello stesso processo creativo – come se le scaturigini dell’ispirazione del musicista non potessero fare a meno di un contesto, di un’atmosfera, di un genius loci che il sensibilissimo e umanamente difficile compositore viveva come ne fosse parte integrante, nonostante le abitazioni essenziali, minuscole.
Mahler sentiva puntualmente il bisogno di allontanarsi da Vienna, per sottrarsi ai rumori, alla confusione, all’incidente del caos quotidiano. Non che poi questa solitudine fosse proprio totale: da quelle parti soggiornavano Brahms, per esempio, altro bel caratterino, diffidente verso la nuova musica, incline al cazzeggio per non arrabbiarsi, poi finalmente disposto a riconoscere al collega più giovane il credito che meritava. Salvo poi infilzarlo con il sarcasmo che gli era abituale – l’occasione fu la Seconda Sinfonia, che definì acquatica. “In che senso?“ disse l’autore. “Che cosa credete di fare? Non c’è più nulla da trovare, la musica è ormai alla fine”, la risposta in sentenza del più anziano collega.
In realtà i due si assomigliavano più di quanto si sarebbe detto, e Mahler, che sapeva tenergli testa, conservò sempre un giudizio ammirato della sua opera. Collaboratore più stretto fu il giovane direttore d’orchestra Bruno Walter, che avrebbe ricordato a lungo la passione letteraria di Mahler, che interrompeva il silenzio di quei luoghi – quando non era al pianoforte – leggendo il Don Chisciotte, ridendo assai, prima di approfittare della compagnia per perdersi in brevi passeggiate.
Talvolta si discuteva di Schopenhauer e Nietzsche, il secondo prima amato poi detestato, ma soprattutto Walter seppe cogliere l’aspetto dionisiaco di quell’immersione mahleriana nella natura. Uno spazio-tempo, quello delle estati lontani dalla città in cui la felice, tumultuosa creatività contrastava con la vita da direttore d’orchestra a Vienna: non che non ne fosse riconosciuta l’abilità ma in quel ruolo Mahler sapeva essere duro, problematico per gli orchestrali, troppo innovativo. E s’incupiva non di rado.
Inoltre, l’antisemitismo dilagava in tutta Europa, e la conversione al cattolicesimo non impedì al musicista di subire attacchi. Così, nel libro di De Martini (costruito anche attraverso le note di due speciali presenze femminili, prima Natalie Bauer-Lechner e poi la moglie Alma), un po’ come era successo con Mozart a Praga, le città e le vite individuali s’intrecciano: se nella fumisteria astrologica, nell’eccentricità inafferrabile e misteriosa alimentata dai gangli sotterranei della città del Golem, Mozart aveva vissuto momenti felici, nella nativa Austria non gli era successo altrettanto, e anche per Mahler non fu certo Vienna il suo mondo ideale, il centro della sua nostalgia prima della morte.
Lezione di cinema è invece un lavoro insolito per le modalità dell’intervista, in cui il mozartiano François Truffaut si cimenta con l’analisti tecnica del suo stesso lavoro, con indubbia capacità di guardarsi dall’esterno per commentare e spiegare ai suoi interlocutori il come e il perché di scelte di regia, di sceneggiatura, di montaggio.
Esemplare lezione quella del regista anche per il ripetersi di una modalità comunicativa non aleatoria ma tutta compresa nella sua cifra umana e artistica: molto poco assertivo nonostante il passato da critico, disturbato dall’enfasi degli ideologi (memorabile la lettera a Jean-Luc Godard: “Non faccio mai grandi affermazioni perché non sono mai tanto sicuro che non sia giusto anche il contrario” ) ma totalmente consapevole dei suoi strumenti, delle tecniche, del lavoro con gli attori e le attrici, delle difficoltà incontrate con il pubblico o con la critica – non poi necessariamente drammatiche.
Nel caso di Mica scema la ragazza, per esempio, film che a Truffaut piacque molto girare, lo spettatore era disorientato dallo scarto rispetto a un modo più ortodosso di intendere la commedia. Peraltro questo fu uno dei molti titoli della sua cinematografia contigui al mondo letterario. In quelli tratti dai romanzi di Henry-Pierre Roché, Jules et Jim e Le due inglesi e il continente sfioriamo le punte apicali del suo cinema ma anche in queste occasioni Truffaut è ben lontano dal considerarli capolavori, trovando qua e là errori di inquadratura (decisamente severo verso alcune soluzioni di La mia droga si chiama Julie), di atteggiamento dei personaggi, di découpage (all’inizio, in piena era Nouvelle vague, piuttosto esigui – caso esemplare, I quattrocento colpi).
Però, non v’è neppure il puntiglio malmostoso e fastidioso di certi autodafé; solo, dice Truffaut al suo intervistatore “ora rispondo in questo modo, fra cinque anni risponderei in un altro”.
Come scrive nell’introduzione Bernard Bastide, Truffaut rifiuta “la posizione del cineasta onnisciente che snocciola una sfilza di verità e certezze”. Pare quasi che la cristallina classicità della sua opera si costruisca in virtù di una serie di errori – ossia di passaggi dell’errare da una soluzione all’altra, per sperimentare, scoprire diverse possibilità di approccio al linguaggio cinematografico e non fare mai lo stesso film.
Il capostipite della Nouvelle vague sente il bisogno di staccarsene – così spiega la frammentazione di La calda amante, film che a suo modo omaggia Hitchcock, maestro lui sì indiscusso, e che, in una totale giravolta rispetto a Jules et Jim, dove si parla di continuo, lascia uno spazio minimo al dialogo. In compenso, si tratta in entrambi i casi di film potenti, ispirati alla massima di Jean Cocteau, “Tutto ciò che non è crudo, resta decorativo”.
Capace anche però, Truffaut, di accostarsi al modello della commedia americana e alle sue gag (Non drammatizziamo, è solo questione di corna) e poi virare verso una storia tragica e lirica come Adele H., in cui il personaggio di una meravigliosa Isabelle Adjani alle prese con le vicende della figlia di Victor Hugo riempie totalmente il film con il suo volto e il delirio di un amore impossibile.
Un cinema di personaggi, quello del regista francese, che ne inventa di memorabili, anche quando sono ripresi da storie letterarie.
Lezione di cinema è un libro imperdibile per gli appassionati del grande regista francese, anche perché alle interviste che ci immettono nella sua officina si accompagnano fotogrammi dei film, estratti di sceneggiature, fotografie di manoscritti e una cospicua bibliografia.
Michele Lupo
- François Truffaut
Lezione di cinema
Traduzione di Valeria Lucia Gili
il Saggiatore
Collana La cultura
2024, 236 pagine
26 € - Piero De Martini
Le estati (quasi) felici di Gustav Mahler
Tra Attersee e Wörthersee, 1893-1907
il Saggiatore
Collana La cultura
2024, 240 pagine
20 €