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Voi siete qui: Mondo » Lettera dallo Zambia: Carlotta si morde la lingua per non giudicare

25 Marzo 2013

Lettera dallo Zambia: Carlotta si morde la lingua per non giudicare

Quinta lettera di Carlotta dallo Zambia.
Cari tutti, sono seduta sotto un albero di guava, all’inizio della pista che dalla town porta in campagna, a casa – aspetto che passi lo schoolbus del cicetekelo, o il pick-up dello staff, o un truck di quelli che per pietà si fermano e caricano tutti sul cassone. Fa davvero troppo caldo per camminare oggi, il verde brillante dell’altopiano e il cielo infinito e i bambini che mi corrono dietro cantando la canzoncina in icibemba che ormai so a memoria (come sei bianca musungu / sicura di star bene / lo vuoi un pomodoro / te lo tiro che così prendi colore) e i militari che sfilano a ritmo, ecco tutto questo oggi non ha nessuna attrattiva. Quindi sto qui, ammazzo le formicone che cercano di affittarmi e dopo parecchio tempo dall’ultima mail, scrivo.
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Quel che mi impegna ora si chiama ABA, che sta per Adoption By Affiliation, l’adozione a distanza, qui declinata diversamente a seconda del progetto in cui rientra – bambini di strada, disabili fisici e mentali, orfani, ragazze madri. Vale a dire: sostieni un pargolo che vive dall’altra parte del mondo versando mensilmente quel tot che gli permetta di andare a scuola, di mangiare una volta al giorno e di vestirsi decentemente, in cambio di un posto al sole nell’aldilà e di un report annuale con foto, letterina e pagella. È una pratica usuale per noi abitanti del primo mondo, che comporta più o meno la rinuncia ad un caffè al giorno; nella nostra immaginazione il passaggio dal portafogli alle mani del pargolo è lineare, e lui pensa a noi come noi pensiamo a lui, sulla scia di un legame famigliare a distanza. Bene: stando a quel che ho visto fino ad ora, potete serenamente resettare tutto, così come ho fatto io – per un po’ mi sono intestardita, facendo la tipica, pessima figura della colonizzatrice che sa qual è il modo giusto di procedere, fino a quando mi è stato consigliato di andare panono panono se volevo mantenere il senno e arrivar da qualche parte, e ho finalmente capito che la prima sfida è abbandonare gli schemi europei e rispettare quel che mi trovo avanti, per quanto assurdo possa sembrare ai nostri occhi bianchi.

Sfido chiunque a non considerare follia la prassi della retta scolastica non solo per gli istituti privati, frequentati solo dalla upper class, ma anche per quelli pubblici, differenziati in governativi, che garantiscono lo svolgimento di un programma che copra le materie fondamentali e degli insegnanti qualificati (il tutto secondo i canoni zambiani, ovviamente) e comunitari, scadenti da tutti i punti di vista. Alle tasse scolastiche bosogna aggiungere l’uniforme, obbligatoria e composta da camicia+cravatta+pantaloni/gonna, rigorosamente venduti dalla scuola stessa, personalizzati dallo stemma; scarpe per forza nere, per forza di pelle, da lucidare tutti i giorni, e calze lunghe bianche, da lavare tutti i giorni, perché dopo aver attraversato il compound sono rosse di terra; jersey, ovvero cardigan, da comprare dove vuoi, tanto costa ovunque un patrimonio.
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Dopodiché, essendo studenti e non camerieri, avranno bisogno di zaino quaderni astuccio calcolatrice e tutto quel che viene richiesto dalla scuola, compreso una risma di carta bianca, un rotolo di carta igienica e un pacco di candele, da consegnare il primo giorno, ovviamente a beneficio del corpo insegnante. E sfido chiunque a non sbarrare gli occhi davanti agli istituti che sembrano alveari: le finestre e le porte sono chiuse da grate e zanzariere, in ogni classe ci sono fino a settanta studenti, stretti nei banchi di legno come quelli dei nostri nonni, tutt’uno con le panche, e gli edifici brulicano dall’alba al tramonto perché per far fronte all’enormità della domanda esiste il doppio turno, come al ristorante. Nonostante ciò, si ha la sensazione che nessuno studi davvero, perché i cortili sono sempre affollati da un costante, variopinto viavai, le iscrizioni sono ancora aperte, i pagamenti in atto, le code per ritirare le uniformi eterne (preciso che l’anno scolastico, qui, inizia a gennaio, ma siamo comunque in marzo, e stanno per arrivare le prime vacanze, ovvero l’intero mese di aprile). Tutto questo è parte integrante del paesaggio zambiano, e fino a quando non ci ho avuto a che fare direttamente mi sembrava quasi folkloristico.

Il mio punto di vista è cambiato in un istante davanti all’elenco dei nominativi delle ABA, che corrispondono ai volti dei ragazzi di tutte le età, e a quelli delle loro mamme o nonne o parenti più o meno stretti, che chiedono di essere sponsorizzati. A loro, che partono a piedi dal compound per raggiungere la sede amministrativa dell’associazione, in town, con i risultati dell’anno precedente stropicciati in mano, importa ben poco la provenienza delle totmila kwacha che occorrono per sedersi in un banco – che vengano da Ba-Daisy, la burrosa zambiana che gestisce il progetto, conosce le loro storie e traduce per me dall’icibemba, dalla nuova musungu che fa domande, aggiorna indirizzi, distribuisce school items, scartabella domande di ammissione, da una famiglia adottante o dal padreterno, è la stessa identica cosa. Basta che ci siano: no sponsor, no school; niente attestato di grade 12, possibilità di trovare un lavoro retribuito praticamente nulle.
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E io guardo le unghie dipinte della madre di Abdu, Paul e Richard, nati da padri diversi, che non sa come mantenere, e mi mordo la lingua; annoto la bocciatura di Emeldah, a cui l’insegnante ha fatto il witchcraft, il malocchio, e mi mordo la lingua; aspetto che Daisy faccia da interprete tra me e Bernard, grande e grosso, che non sa una parola di inglese perché a scuola non glielo insegnano, e mi mordo la lingua; chiedo l’emissione di un secondo assegno a beneficio di Christabel perché il primo è stato usato per comprare cibo invece che per pagare la retta, e mi mordo la lingua; vado tre volte nella stessa scuola a mostrar la fotocopia della ricevuta persa dalla segreteria altrimenti non ammettono Wendy in classe, e mi mordo la lingua; consegno il pacco di materiale scolastico a Felisitas che porta la figlia di tre mesi annodata sulla schiena ed è determinata a tornare a studiare dopo un anno di interruzione, e mi mordo la lingua; impiego mezza giornata per raggiungere una boarding school dispersa nel bush, che offrendo vitto e alloggio costa carissima, e trovo i ragazzi che zappano, lavano, cuciniano invece di far lezione in classi comunque troppo fatiscenti per essere agibili, e mi mordo la lingua – perché chi sono io per giudicare?

Ma non ci riesco mai davvero: la comprensione e l’accettazione sono ancora un traguardo lontano, forse irraggiungibile, a meno di non naturalizzarmi zambiana – ma ci vorrebbe altro che la testa a treccine! By the way, spero si legga tra le righe che la vostra rinuncia quotidiana ad un caffè è cosa buona e giusta, perché anche se quel soldino non finirà dove pensate, anche se il vostro pargolo non diventerà medico o avvocato come sta scritto nelle letterine, e se lo diventerà non saprà mai che lo deve a voi, in posti come questo anche un gesto piccolo così è vitale. Nel bel mondo lo bevi in un fiat, qui viene moltiplicato, o usato come seme, o trasformato in un hard cover book da 196 pagine – vedetela come volete, ma lanciatelo lontano, quel soldino.
E per ora è tutto
Carlotta

– Indice delle lettere inviate da Carlotta dallo Zambia

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