Non era il mare della poesia, dei profumi, delle piante, dei miti. Non era il teatro delle mille storie magistralmente evocate e raccontate in Breviario mediterraneo.
Oggi a Verbania, in occasione della terza edizione del festival LetterAltura, Furio Colombo e Predrag Matvejević hanno parlato di un altro Mediterraneo.
Quello delle frustrazioni che paiono essere l’unico elemento ormai ad accomunare la sponda settentrionale e quella meridionale. Quello dei barconi dei disperati che lo solcano alla ricerca di un nuovo inizio. Quello dei radar da mostrare al pubblico televisivo di volta in volta punteggiati di spie luminose, come spauracchio, o invece sgombri, a orgogliosa dimostrazione dell’efficacia di una politica di respingimento.
Lo spunto del dialogo tra i due scrittori è venuto dal nuovo libro dell’intellettuale nato a Mostar, intitolato Confini e frontiere. Furio Colombo non ci ha girato intorno: ha confessato di aver trovato un’impressionante analogia tra la Jugoslavia raccontata da Matvejević e l’Italia attuale. Le parole d’ordine che si sentono sempre più frequentemente assomigliano pericolosamente a quelle pronunciate dai responsabili della dissoluzione della Federazione Jugoslava. La paura, ha detto Colombo, è un’efficace macchina porta-voti.
Il libro di Matvejević si può dunque leggere come “profezia” di quello che succederà al nostro paese? Quando si parla d’immigrazione, ha notato da parte sua Matvejević, quello che lui sente è sempre “quanti, quanti, quanti”. Quanti immigrati sono sbarcati, quanti sono stati rispediti indietro, quanti ne sono morti durante la traversata, quanti ne possono assorbire le economie europee.
Le autorità, i politici e spesso i media fanno soltanto un discorso quantitativo, dimenticando o tacendo che dietro le cifre si nascondono i destini di migliaia di persone.
L’italiano, gli ha fatto notare un giorno il suo traduttore tedesco, vanta una singolare profusione di termini per esprimere il concetto di “immigrato”: straniero, profugo, apolide, fuggiasco, fuoriuscito e molti altri ancora.
Forse questa ricchezza si spiega con il fatto che l’Italia ha conosciuto l’emigrazione più forte. Matvejević ha confessato di riflettere spesso sul termine “fagotto”, una parola che lo ossessione. Cosa c’è, si domanda, nel fagotto che si portano dietro coloro che fuggono dal proprio paese?
Ha ricordato la ricchezza trapiantata nel paese di accoglienza dai grandi rifugiati del passato: semi di cultura che poi hanno prodotto messi abbondanti.
Con passione e chiarezza ha spiegato che identità non va confusa con singolarità, né particolarità. Identità è infatti sinonimo di pluralità. Ha ammonito sulla pericolosità delle ideologie che esaltano il particolarismo perché trascinano verso l’opposizione frontale e lo scontro.
Quando la nazionalità diventa più importante dell’umanità, un paese ha finito di esistere. Matvejević ha visto i Balcani trasformarsi dalla culla della civiltà europea nel suo cimitero e da “nazionalista” italiano, come l’hanno definito scherzando alcuni colleghi europei quando spingeva per creare in Italia una fondazione sul Mediterraneo, non si capacita del disprezzo che il nord del paese riversa sul sud.
Questo disprezzo, ha detto Colombo, si è spostato sugli immigrati individuati come bersaglio più comodo per quei partiti e movimenti che spingono sul pedale della paura per racimolare più voti. In un momento in cui sulla sedia più importante del mondo siede un presidente di colore, in Italia si progettano e si attuano politiche apertamente di apartheid. È un altro segnale del ritardo che stiamo accumulando.
No, non era il Mediterraneo dei profumi e delle mille isole quello di cui abbiamo sentito parlare oggi a Verbania. Ma la speranza è che la sua millenaria storia di scambi (è bene che anche i più gretti lo capiscano: questi scambi non si sono mai interrotti, né mai si interromperanno) insegni una via più intelligente per uscire dalla frustrazione che accomuna le due sponde.
Saul Stucchi
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