In occasione della rappresentazione di Ascolta! Parla Leningrado… Leningrado suona in scena l’11 e il 12 gennaio 2010 al Teatro Litta di Milano, ALIBI Online ha intervistato il professor Gian Piero Piretto che ha prestato la sua consulenza di storico per la realizzazione dello spettacolo.
Professor Piretto, in cosa è consistita la sua consulenza?
Sostanzialmente nel reperire fonti di informazione e documentazione non convenzionali, come diari e memorie dell’assedio, testimonianze (in particolare legate al ruolo esercitato dalla radio negli anni di assedio) pubblicate negli anni sovietici in Russia o fuori dal paese, tradurle quando l’originale fosse in russo, recuperare musica e canzoni specifiche dell’epoca e discutere con gli attori su questi materiali cercando, anche secondo le intenzioni primigenie dell’ideatore del progetto e regista Sergio Ferrentino, di rimuovere visioni retoriche e convenzionali e far venire a galla la dimensione umana e quotidiana dell’epopea storica in generale e del momento specifico di cui si parla nella pièce.
Qual è stato il significato storico del fallimento dell’assedio tedesco a Leningrado?
I significati storici sono stati molteplici, e ancora oggi non si è arrivati a una determinazione precisa o univoca. Bisogna nettamente distinguere il valore che la resistenza dei cittadini leningradesi ha avuto all’interno della città e delle coscienze di chi l’assedio lo ha vissuto e che all’assedio è sopravvissuto, e le valenze politiche e strategiche che il potere sovietico-staliniano ha attribuito a quell’evento. I cittadini hanno lottato in nome dell’identità leningradese, dell’amore per la propria città (da sempre in Russia icona di eccentricità e anomalia rispetto al resto della nazione). Lo slogan in auge negli anni bellici, “per la patria e per Stalin”, non è stato applicato alla lettera a Leningrado, forse anche a causa della consapevolezza degli errori tattici commessi dall’Armata Rossa rispetto alla difesa della città stessa. L’orgoglio di avere combattuto e vinto “da soli”, pur in sintonia spirituale ed emotiva con il cosiddetto “grande paese”, che indicava nel lessico dell’assedio tutto il resto della Russia intorno alla città accerchiata, ma non necessariamente con il suo discorso ideologico, avrebbe portato l’ufficialità a prendere imbarazzate e pesanti distanze dall’eroismo dei leningradesi. Il loro stato di “obbligati” all’eroismo, dalle manchevolezze di chi non aveva tempestivamente provveduto all’evacuazione della città, e l’ aver fatto conseguentemente e caparbiamente proprio quello stato di cose non poteva passare inosservato. Inizialmente, ben inteso, prevalsero il trionfalismo, la retorica della vittoria e della resistenza eroica. Leningrado sarebbe debitamente rientrata nel novero delle “città eroe” dell’URSS, ma un’iniziativa quale il museo commemorativo del blocco fu congelata e ai vertici del partito di Leningrado ci furono diverse epurazioni e condanne. L’anomalia del comportamento suscitò perplessità e sospetti nei vertici del potere e la storica connotazione “europeizzante” di Pietroburgo-Leningrado, città leggendariamente invisa a Stalin, pesò ancora una volta sul suo destino.

Perché l’assedio è fallito?
Non mi spingo in interpretazioni militari o strategiche, rispetto alle quali non ho le competenze necessarie. Mi limito a una risposta sul fronte culturale e comportamentale, ben consapevole del fatto che la gestione tattica sia dell’attacco che della difesa, unite alle condizioni ambientali e climatiche, abbiano avuto una immensa responsabilità. Il contributo quotidiano degli abitanti, donne in particolare visto che gli uomini abili erano quasi tutti al fronte, fu incalcolabile e significativo. Al di là di ogni retorica posteriore o politica, l’aver indefessamente continuato a far procedere l’esistenza in maniera quanto più possibile “normale”, pur in condizioni disumane e tragiche, sul piano psicologico fu tra le ragioni dominanti della sconfitta tedesca. Nessuno si risparmiò, anzi, ciascuno diede il proprio contributo sul fronte della sopravvivenza non soltanto materiale, ma anche e soprattutto, culturale, intellettuale. La radio non smise mai di funzionare e fu la voce che mantenne in vita la voglia di vivere. Nei momenti in cui era umanamente impossibile trasmettere in diretta si mandava in onda il ritmato ticchettio di un metronomo, il “cuore battente” di Leningrado. I teatri fino all’inverosimile mantennero attive le proprie stagioni. La solidarietà e la cooperazione tra i cittadini, salvo casi estremi, fu costante e fondamentale. L’inventiva, sostenuta dalla disperazione, raggiunse vette inenarrabili sul fronte della sopravvivenza: zuppe cucinate con la colla delle tappezzerie, memorie scritte sui margini di vecchi giornali o sulla stessa carta da parati, dopo che la colla era stata raschiata per essere cotta, pagnotte preparate con terra, bucce, semi, scarti di ogni genere. A questo si aggiunse l’orgoglio di non lasciar entrare l’invasore in città, pur ignari che il Cremlino avesse già deciso che se i tedeschi avessero prevalso Leningrado sarebbe stata distrutta dai sovietici stessi.

Come l’arte e la propaganda sovietiche hanno utilizzato la resistenza della città?
I progetti di costruire musei e memoriali partirono negli immediati anni del dopo guerra, ma loro realizzazione dovette attendere il disgelo chruščeviano e gli anni della destalinizzazione. Il museo della Resistenza venne chiuso nel 1949, i documenti confiscati e il direttore arrestato. Il cimitero memoriale Piskarevskoe, progettato tra il 1945 e il 1948, sarebbe stato realizzato solo tra il 1955 e il 1960. Il cinema e la letteratura privilegiarono la battaglia di Stalingrado (oggi tornata a chiamarsi Volgograd), episodio più brillante del trionfalismo bellico staliniano e meno carico di ombre e fantasmi. Restarono a lungo non pubblicati i testi poetici e memorialistici della poetessa Ol’ga Berggol’c, anima di radio Leningrado nei mesi dell’assedio. La poetessa Anna Achmatova e lo scrittore Michail Zoščenko subirono i pesanti attacchi dell’idelogo Ždanov che sarebbero confluiti nel cosiddetto “caso leningradese”. Solo dopo la morte di Stalin la propaganda sovietica si sarebbe impossessata dell’eroismo e avrebbe restituito, seppure con grande zavorra retorica e ideologica, visibilità e fama all’epopea dei cittadini. Resta la grande testimonianza, protagonista anche della piéce teatrale di cui si parla oggi, della Settima sinfonia di Šostakovič, composta in parte nella città assediata e conclusa in Asia Centrale dove il musicista era stato evacuato, dedicata interamente alla città e al suo memorabile spirito e, anche per questo, a sua volta, vittima di attacchi e contestazioni. Negli ultimi anni sono stati pubblicati in Russia documenti e testimonianze inedite sull’assedio, risorti dagli archivi dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

E la cultura occidentale che interesse ha mostrato verso il tema dell’assedio e della resistenza? (a me viene in mente solo il film Nemico alle porte di Annaud, che però è incentrato sull’assedio di Stalingrado…)
Scarso certamente. Mi risulta che Sergio Leone avesse in progetto un grande film sull’assedio di Leningrado, ma non riuscì a compierlo. Giuseppe Tornatore lo riprese ma allo stato attuale risulta ancora bloccato da problemi di produzione.
Cosa rimane di quell’epopea nella Russia post-sovietica?
Rimane il problema (e la necessità) di rileggere e riscrivere la storia, di tutta l’era sovietica, non solo dell’assedio di Leningrado. L’atteggiamento di Putin che vuole “rivalutare” la posizione staliniana, non solo per aver trasformato il paese da arretrata nazione rurale in potenza industriale, ma anche per averlo portato alla vittoria sui nazisti, lascia aperte interpretazioni e indagini anche sull’epopea del blocco. Gli archivi consultabili, anche se non nella loro interezza e non senza difficoltà, potrebbero gettare nuova luce su fatti di quegli anni. Il breve e straordinario documentario di Sergej Loznitsa, giovane regista di origini bielorusse, Blokada (L’assedio, 2006), raccoglie dagli archivi e monta spezzoni di filmati che illustrano momenti diversi dell’assedio di Leningrado, collegati tra loro dall’interesse per la dimensione quotidiana e non eroica. Gente che cammina, scambi di sguardi, la guerra che di giorno in giorno trasforma il volto della città, autobus e tram bloccati prima dalla mancanza di elettricità, poi dalla neve e dal gelo. Il tutto con una colonna sonora costruita sulle immagini che, con rispettosa discrezione, aggiunge all’originale muto soltanto rumori di fondo, qualche voce, poca musica.
A cura di Saul Stucchi
Gian Piero Piretto insegna Cultura russa all’Università degli Studi di Milano. Ha scritto saggi e articoli sulla letteratura russa del XIX secolo e sul problema della città in letteratura. Negli ultimi anni si è dedicato al metodo degli studi culturali, con particolare attenzione verso l’epoca sovietica della storia russa. Ha pubblicato Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche (Einaudi) e ha curato il volume Parole, suoni e immagini di Russia. Saggi di metodologia della cultura, edito da Unicopli.