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30 Giugno 2009

IL PANE DEI MARINAI. Un inedito di Predrag Matvejevic’

inedito_ante Molto si è detto e scritto delle imprese dei grandi navigatori del passato, del loro ardimento e tenacia. Si sa meno, invece, della vita dei marinai nel corso della navigazione, delle paure che dovevano dominare, della gioia che provavano nei momenti in cui rivedevano la terraferma. Ancor meno si sa quale tipo di pane mangiavano.
Oltre alla durissima galletta del marinaio, davano anche del companatico, e quale, a quei lavoratori del mare? Riuscivano a cuocersi di tanto in tanto filoncino? Con che cosa alimentavano il fuoco? Con la legna che a bordo scarseggiava o con il carbone che era insufficiente? Quali erano i parassiti – dalle mosche ai vermi, dagli scarafaggi ai topi e ratti – che maggiormente mettevano in pericolo le vettovaglie imbarcate e depositate nelle dispense dei bastimenti prima della partenza: farina o grano, pane già cotto o gallette? Le risposte ci vengono da documenti e testimonianze.
Gli scritti antichi, soprattutto quelli che solitamente chiamiamo diari o giornali di bordo, talvolta anche i portolani, fanno cenno al pane dei marinai. Plinio il Vecchio lo definisce panis nauticus. È stato un danno immenso la scomparsa del settimo libro della sua Naturalis historia dedicata alla navigazione (De navigatione): in esso avremmo trovato certamente informazioni preziose anche sul vitto dei marinai. Nell’Odissea si accenna agli “otri ben cuciti” nei quali si custodivano la farina e le gallette. Queste, dagli antichi Greci erano dette dipyron o paxamida. Da un mare all’altro, dall’uno all’altro porto il pane differiva, e diverse erano pure le gallette del marinaio. Nelle navigazioni su percorsi brevi o non molto lunghi lungo i litorali dette di piccolo o grande cabotaggio, quelle insomma che non duravano più di una settimana, il marinaio poteva portarsi nel sacco il pane fatto in casa, quello di cui si nutrivano appunto i suoi familiari. L’acqua, almeno parzialmente, poteva essere sostituita dal vino. Nei viaggi di lungo corso venivano portate gallette di vario tipo, talvolta anche filoni di pane asciutto e schiacciato. Sui grandi velieri, quelli in grado di attraversare il Mediterraneo e affrontare gli oceani, venivano caricati, tra l’altro, determinati quantitativi di farina e di legna da ardere in modo da poter cuocere il pane, in particolari occasioni, in forni o su fuochi improvvisati nella stiva o a poppa, magari soltanto per il capitano e per gli ufficiali.
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Capitanerie di porto, spedizionieri ed armatori hanno lasciato informazioni che ci permettono di immaginare quale fosse il vitto più frequente degli equipaggi delle navi. Su questo tema i punti di coincidenza sono molto più numerosi delle divergenze negli ordinamenti e statuti varati dai governi e dalle amministrazioni marittime delle repubbliche di Venezia, Ragusa e Genova, del Portogallo, della Spagna, Francia, Olanda e soprattutto della Regia marina britannica. La repubblica marinara di Venezia ci ha lasciato il maggior numero di documenti. Il Senato della Serenissima varava leggi e nominava i funzionari preposti al controllo della loro applicazione. Non a caso il vitto nel suo insieme e l’equivalente in denaro spettanti ai marinai delle navi mercantili erano detti panatica. I rematori sulle galee (galeotti) si distinguevano in due categorie: i condannati e i liberi. Questi ultimi per la loro fatica ricevevano un salario in vitto o denaro. I primi ricevevano, per sopravvivere, una libbra e mezza ovvero circa mezzo chilogrammo di gallette al giorno, gli altri anche qualcos’altro in aggiunta. Intorno all’Arsenale erano all’opera numerosi panettieri che avevano l’obbligo di attenersi a determinate “regole”. Uno speciale “provveditore del biscotto” si prendeva cura della produzione delle gallette ma anche del modo in cui si poteva e doveva preservarle dalla tarlatura. I galeotti legati allo scalmo ed ai remi ricevevano talvolta una pagnotta fatta con farina di carrube: una volta digerito quel “pane”, il galeotto defecava escrementi asciutti che venivano facilmente spazzati in mare; il rematore non doveva essere slegato per compiere i suoi bisogni. I pesci si raccoglievano in gran numero sotto bordo per nutrirsi di quelle “gustose” feci; i marinai ne approfittavano per pescarli con piccole reti e all’amo, dopo di ché li arrostivano e li mangiavano con altrettanto gusto.
Sono numerosi negli archivi veneziani i documenti che contengono denunce contro capitani e ufficiali accusati di acquistare viveri di cattiva qualità per l’equipaggio, soprattutto farina, grano, gallette, presentando invece alle autorità ed agli armatori conti con prezzi ben superiori a quelli realmente pagati. Molti di loro – capitani e ufficiali – si arricchirono in questo modo, costruendo i loro palazzi lungo il Canal Grande.
I panettieri genovesi erano tenuti a giurare, soprattutto negli anni di guerra, che avrebbero cotto e consegnato un biscotto bonus et idoneus. Chi non si atteneva alla regola subiva dure punizioni.
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Le tre caravelle della spedizione che portò Colombo alla scoperta dell’America vennero rifornite nel porto di Palos di tutto ciò che era necessario per affrontare la lunga navigazione che avrebbe dovuto portare gli uomini degli equipaggi alle Indie. Nella prima tappa del viaggio, le Canarie, il vettovagliamento fu completato. Vengono espressamente menzionati farina, vino e bizcocho, oltre all’acqua ed alla legna. In una sua lettera ai signori di Castiglia l’ammiraglio menziona espressamente il pane dei marinai, la galletta o biscotto. Ordinò tra l’altro che nel corso della navigazione la cambusa doveva rimanere chiusa. Il giornale di bordo evidenzia certe ossessioni legate al pane e al modo di prepararlo e cuocerlo. Dopo aver toccato la prima isola ed averla battezzata San Salvador, Colombo incontrò presso la costa alcuni indigeni che a bordo di un’imbarcazione remarono verso la “Santa Maria”, e immediatamente paragonò i loro remi alle pale con le quali si inforna il pane. Non mancò di ricordare dei piccoli pani, non più grossi del pugno di una mano prodotti da quegli stessi indigeni, fatti non si sa con cosa e come cotti. Sul caso troviamo una testimonianza di Bartolomeo de Las Casas che il 15 ottobre 1492 indirizzò un rapporto a “Don Fernando ed alla sua consorte Isabella, per grazia di Dio Re e Regina di Castiglia, Aragona, Sicilia e Canarie”. Eseguendo un ordine dell’Ammiraglio, al primo di quegli indigeni salito a bordo della caravella i marinai donarono “pane e melassa”.
Anche l’equipaggio di Vasco de Gama, dopo aver circumnavigato l’Africa ed essere arrivato in India, sbarcando nel porto di Calcutta, offrì del pane agli abitatori del luogo che li avevano accolti con gioia. Gli indiani ricambiarono la cortesia donando a loro volta pane di riso condito con miele. All’epoca, in quella regione, il pane non era un’incognita, ma gli asiatici preferivano farlo col riso invece che con la farina dei cereali.
La penuria di cibo accompagnava immancabilmente i marinai nei loro lunghi, interminabili viaggi sugli immensi oceani lontani. Negli scritti di Pigafetta, che fedelmente seguì Magellano nei suoi viaggi, possiamo leggere come i membri dell’equipaggio passarono “tre mesi e venti giorni sul Pacifico” senza riuscire ad acquistare alcuna vivanda e furono perciò costretti a nutrirsi delle vecchie e ammuffite gallette oramai “sbriciolate, piene di vermi e appestate dall’urina lasciata dietro di sé dai ratti”.
Lo scorbuto che spesso in tali occasioni si diffondeva fra gli equipaggi, martoriava i semplici marinai come i loro ufficiali: agli uni e agli altri si gonfiavano le guance e i petti; la regione lombare e le cosce si tumefacevano; i muscoli e le ghiandole inguinali si rammollivano; dai gonfiori “duri come il legno” e “grigi come il piombo” fuoriusciva una marcia sanguigna; nella bocca anche le gengive marcivano, i denti cadevano. Una malattia molto simile a questa la descrisse già Strabone nel XVI libro della sua Geografia, raccontando la navigazione della squadra navale sotto il comando di Aelius Gallus verso l’Egitto.
Il termine di scorbuto, a quanto pare, fu usato fra i primi dagli Olandesi (scheurbuik) mentre sulle navi portoghesi e italiane per questo malanno fu spesso usato quello di male delle gengive. Alcuni filologi affermano che l’espressione “il pane dalle sette scorze” nacque proprio nell’ambiente marinaresco.
inedito_3James Cook rivolse la sua attenzione alle difficoltà di procurarsi i viveri necessari a bordo, dopo essere stato costretto a sbarcare a Plymouth più di cento marinai della sua squadra gravemente colpiti dallo scorbuto. La Royal Society di Londra, in collaborazione con l’Ammiragliato britannico, seppe trovare il farmaco per combattere lo scorbuto e salvare l’onore della marina inglese. In Francia il ministro del Re Sole Jean-Baptiste Colbert introdusse utili innovazioni e stabilì precisi doveri da osservare durante le lunghe navigazioni: furono indicati i porti in cui una nave poteva o doveva fermarsi per rifornirsi di viveri freschi e sani, soprattutto di farina, pane e biscotti. Si trattava di una prassi già nota ed applicata dai Veneziani. Una prassi che portò una certa vivacità nella monotona vita dei marittimi che, in occasione delle soste nei porti, potevano trovare uno svago non soltanto a tavola. Alcuni porti, che per lungo tempo erano stati considerati secondari, divennero da allora importanti.
Il biscotto (biscuit, bizcocho), in dalmato beskot, era in auge non soltanto a Venezia ed a Genova, a Ravenna, ad Ancona ed a Ragusa/Dubrovnik ma anche a Marsiglia, a Barcellona, a Napoli, ad Amalfi e Bordeaux, a Smirne, Haifa ed Alessandria, a Cadice, Amsterdam, Odessa, Plymouth, e in varie altre città portuali. Differiva soltanto la qualità di quel “pane del marinaio”, e diversa era la sua durata. Alcuni funzionari veneziani che avevano servito nei porti mediterranei ricevevano una speciale aggiunta di pensione in natura: un determinato quantitativo di biscotti.
All’inizio del secolo XIX, nell’anno 1821, sull’isola di Creta ovvero Candia avvenne, si può dire, un miracolo: fu trovato un biscotto arrivato lì 152 anni dopo essere stato cotto in una panetteria accanto all’Arsenale di Venezia. Avvolto nella juta, non aveva perduto né l’odore né il sapore; aveva perso un po’ di colore, ma non si era guastato.
In un vecchio giornale di bordo viene indicato uno strano criterio in base al quale gli esperti marinai valutavano il biscotto: era buono se si poteva spezzarlo nel punto di una protuberanza con una rapida pressione del dito medio, e meno buono se c’era invece bisogno di un martelletto per spezzare la crosta indurita.
Con la comparsa delle grandi navi, dapprima quelle a vapore e poi delle ancora più grandi motonavi, cambiò anche la posizione, l’importanza e il ruolo del pane nella lista cibaria di bordo. A disposizione dell’equipaggio sono ampie dispense, le cucine dispongono a loro volta di capaci forni e sono fornite di legna e carbone a sufficienza, i cuochi possono adoperare per il pane sufficienti quantitativi di farina, sale, lievito e tutto ciò che è necessario affinché il pane possa essere impastato e cotto in modo da restare fresco e sano. Nella navigazione il vero pane ha sostituito il biscotto, la galletta, le focacce, le schiacciate, i grissini, le ciambelle. Ma questa è soltanto una parte di un altro racconto, diverso da quello che qui abbiamo cercato di raccontare.
Predrag Matvejević
(traduzione di Giacomo Scotti)

ALIBI Online ringrazia sentitamente il prof. Matvejevic’ per aver concesso l’onore di pubblicare questo testo inedito.

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