Non ci sono dubbi che sia uno dei protagonisti di questa strana estate, forse addirittura Il Protagonista, se restringiamo la visuale al mondo della cultura. Il dubbio invece riguarda la sua identità. Chi ha voluto infatti ritrarre – praticamente nudo, accanto a un ovino che gli volta le spalle intento a brucare delle foglie mature di vite – l’omicida e fuggiasco Michelangelo Merisi universalmente noto come il Caravaggio? Semplice: un fanciullo Giovanni, futuro Battista. Au contraire, ribatte Mauro Di Vito, che ha analizzato uno per uno i particolari disseminati nella tela dal pittore. A una (più) attenta analisi queste “spie” parlano chiaro e svelano tutt’altra storia: il presunto Giovannino è invece un Buon Pastore, di paleocristiana ascendenza (in funzione anti-protestante, nientemeno). ALIBI ha intervistato lo storico dell’arte per saperne di più.
Mancando tutti gli attributi “d’ordinanza” di sua pertinenza, perché ha resistito finora l’identificazione del fanciullo con Giovanni Battista?
Come specificato nel catalogo, e come già indicato da diversi studiosi, il dipinto non presenta gli attributi e i simboli distintivi della convenzione che ci permette di riconoscere San Giovanni Battista (indice alzato, pelli di animale, verbasco, agnello, croce, cartiglio con la scritta “ecce agnus dei”, ciotola). La risposta a questa domanda è però cresciuta rispetto al breve dialogo che tratta dell’iconografia, composto a quattro mani da Serena Nocentini e me.
Vorrei sottolineare che un’occasione di incontro e confronto simile è unica sia per chi ha la curiosità per ascoltarci, sia per noi, che ci occupiamo in maniera più specifica del Caravaggio come un’équipe. Confrontarsi genera sempre aggiustamenti e approfondimenti, è inevitabile: è il metodo scientifico. Certi studiosi invece restano arroccati sulle proprie posizioni per anni. Noi siamo sempre aperti e in ascolto. La formula della mostra, curata da Valeria Merlini e Daniela Storti, è proprio questa.
Giochiamo a carte scoperte: il punto debole della nostra interpretazione è che l’identificazione del Battista Borghese con un Buon Pastore non coincide con il titolo dato al dipinto, nei documenti. Tra questi, il primo che parla del quadro come di un “Battista” è una lettera del Viceré di Napoli, che chiede da Porto Ercole la restituzione del carico di tre tele di Caravaggio, questo documento è successivo alla morte del pittore. In seguito, il dipinto resta nel Palazzo Reale a Napoli per un anno, dopo essere passato nelle mani della Marchesa Costanza Sforza Colonna, ospite a Chiaia, a Palazzo Carafa.
Come sappiamo dalla lettere dell’agente napoletano di Scipione Borghese, il vescovo di Caserta Diodato Gentile, la Marchesa nega il dipinto ai Maltesi, che lo richiedono come eredità di Caravaggio, cercando di accampare diritti sul prezioso carico della feluca, in quanto era norma che i Cavalieri di Malta lasciassero i proprij beni all’Ordine. La Marchesa, però, sapendo dell’espulsione di Caravaggio dall’Ordine, nega il dipinto. Secondo Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese, che ha più volte schedato l’opera, il nostro quadro rimane nel Palazzo del Viceré per un anno.
Lì viene copiato dal Galanino (Baldassarre Aloisi, un allievo di Annibale Carracci), si hanno infatti i documenti di pagamento, ma non sono state rintracciate le copie. Esiste solo un dipinto, peraltro non di Galanino, che è una versione in controparte (la posizione del corpo del ragazzo è speculare al nostro), pubblicato da Maurizio Marini.
La tela è richiesta insistentemente dal Borghese, e lo raggiunge a Roma dopo un anno. La cosa interessante che la storia collezionistica del dipinto ci permette di ricostruire, è che il quadro non è esposto subito nella Galleria Borghese, bensì nel Palazzo Borghese di Ripetta.
Mentre la Galleria (Villa suburbana) era il luogo di rappresentanza, il Palazzo Urbano di Ripetta, vicino al porto del Tevere (dove oggi è l’Ara Pacis) era invece privato. Questo ci ha fatto pensare. Borghese era un avido collezionista e aveva già acquistato diverse opere del Merisi. Queste, tuttavia, erano esposte in Galleria. Il quadro del Buon Pastore, invece, secondo gli inventarij, fu esposto nel Palazzo privato. Ci siamo chiesti, allora, se questa scelta non fosse stata presa per occultare in qualche modo il significato del quadro. In effetti Borghese riceve il dipinto un anno dopo la morte di Merisi.
Alla luce della sua scomparsa, il Borghese, Ministro di Giustizia (Gran Penitenziere), al quale Caravaggio si rivolgeva per ottenere la firma della grazia, non faceva una figura irreprensibile: il Cardinale apre il pacco e il Buon Pastore lo guarda con un viso velato di malinconia: con la mano destra (positiva) suggerisce alla sinistra (negativa) di cancellare la firma nefasta che l’aveva bandito e condannato a morte.
Non è un caso quindi che tenga in mano uno stelo di canna (Arundo donax) che in latino si dice Calamus e significa anche “strumento per scrivere”, da cui poi, ad esempio, calamaio. Questo era in realtà il messaggio del dipinto? Caravaggio si identifica nella pecorella smarrita, simbolo del peccatore pentito, che, brucando i pampini della vite eucaristica, ritorna alla vita. Ma dopo la sua morte, il quadro assume una sfumatura funesta, che getta un’onta sulla reputazione del Cardinale: la firma non era stata apposta in tempo, Caravaggio era morto. Il Cardinale, che avrebbe dovuto salvare la pecorella-Caravaggio, secondo le regole dell’ imitazione di Cristo (cfr. Tommaso Malleolo da Kempis, Imitatio Christi) non lo aveva fatto.
Insomma Scipione Borghese, invece di seguire l’esempio del Buon Pastore, aveva voltato le spalle alla pecorella. E questo non piaceva al Borghese, che, evidentemente, per censurare il significato che risvegliava in lui malcelati sensi di colpa, cambia il soggetto del dipinto, e lo intitola Giovanni Battista. Ora questa ipotesi resta debole, ma è rafforzata dal fatto che il padrone del Palazzo Borghese di Ripetta, dove il nostro quadro è inventariato almeno dal 1613 (cfr. Scipione Francucci, Galleria), si chiamava proprio Giovanni Battista Borghese, era il cugino di Scipione, e il fondatore della fortuna economica della famiglia del Papa: Paolo V.
Come se non bastasse, quando il quadro è esposto nella Villa Borghese, solo alla fine del XVIII secolo, dopo che i nostri protagonisti sono tutti scomparsi, viene inspiegabilmente attribuito a Valentin de Boulogne, un pittore caravaggesco, e non a Caravaggio. Cambiando autore e titolo, si scremano tutte le sfumature indesiderate, si sarebbe detto che il quadro viene emendato. Sembra che la famiglia Borghese volesse evitare di esporlo in pubblico, perché diffamava la condotta dell’antenato. La Galleria, con tutti i suoi dipinti, entra a far parte del Patrimonio dei Beni Culturali nel 1903, e quindi non è più dei Borghese, solo nel 1909, quando si sta compilando il catalogo, il dipinto viene riattribuito a Caravaggio da Lionello Venturi. Finché il quadro resta di proprietà dei Borghese, si tenta di depistare gli spettatori, occultando l’originaria intenzione comunicativa.
Ma torniamo alla domanda sulla fossilizzazione del titolo, come sappiamo, l’iconologia in Italia, non è una disciplina praticata in modo molto professionale: manca una scuola. Gli storici dell’arte, forse un po’ semplicisticamente, hanno identificato nell’animale un ariete. Era bastato vedere che aveva delle corna, per riportare il soggetto al Precursore. L’ariete, come chiunque può trovare nei bestiari medievali, è simbolo di Cristo. Peccato che si tratti in realtà di una pecora cornuta. Per identificarla abbiamo dato fiducia al realismo della pittura di Caravaggio, e abbiamo chiesto a uno Zoologo, Marco Masseti, di riconoscerla per noi, come se fosse un esemplare fotografato.
Secondo una scala tassonomica scientifica, risulta che si tratta di un particolare fenotipo di pecora che presenta le corna anche nel genere femminile, oggi quasi estinta perché non più allevata, ma un tempo diffusa sul territorio italiano dalla Liguria alla Calabria. L’errore degli storici dell’arte, che non hanno considerato questa possibilità, non è quindi colpevole, poiché oggi questo animale è una rarità. In effetti diversi studiosi prima di noi si erano già peritati di esprimere perplessità sull’iconografia del Battista Borghese.
Il fatto che si tratti di una pecora ci autorizza a identificare il soggetto con un Buon Pastore, che le è normalmente appaiato. Il ragazzo nel dipinto, infatti, ripete quasi citandolo il mosaico del Buon Pastore del mausoleo di Galla Placidia. Tutto qui: un errore di identificazione zoologica aveva portato fuori strada gli studiosi, e un mancato interesse nei confronti del significato delle immagini ha fatto il resto. Per me è un onore aver “proposto” questa interpretazione, perché finalmente dopo quattrocento anni, restituiamo al quadro il suo codice illocutivo, il messaggio che Michelangelo Merisi aveva pensato per il Borghese, in sede di composizione. O almeno mi illudo di averlo restituito.
La proposta di identificazione col Buon Pastore che accoglienza ha ricevuto? Ci sono “resistenze” da parte della Galleria Borghese?
Non so quali siano le risposte di Anna Coliva e di Rossella Vodret alla nostra interpretazione, la sera dell’inaugurazione ho personalmente donato alla direttrice della Galleria Borghese il catalogo, chiedendoLe un parere. Ovviamente non cambieremo il titolo, che resterà sempre San Giovanni Battista e con questo titolo ad esso continueremo a riferirci, poiché è così da quattrocento anni: si tratta di una tradizione secolare.
Ciò nondimeno, la comunità degli studiosi è tenuta a prendere in considerazione ogni nuova discussione e ricontestualizzazione di un’opera. Ci vuole tempo però. E ora sono tutti in vacanza. Quello che è certo è che stando in sala ho avuto pareri entusiasti da parte di diversi storici dell’arte relativamente alla nostra proposta, e da molti altri visitatori, non addetti ai lavori.
Nel suo saggio in forma di dialogo, pubblicato nel catalogo della mostra, cosa significa il passaggio della nota n. 8: “Non riconoscendo al verbasco il suo valore di attributo formulare, Valeska von Rosen cade nella trappola concettuale dell’ambiguità”? Di quale trappola si tratta?
Questa è una domanda delicata. Esiste una tendenza di pensiero che propone di vedere i dipinti di Michelangelo Merisi come “ambigui”. In tutti i sensi (anche erotici). Per esempio questa insigne studiosa tedesca, ha pubblicato un articolo negli atti del convegno della Biblioteca Hertziana (Silvana Editoriale) in cui sostiene che l’ambiguità è uno dei motivi caratteristici dei San Giovanni Battista di Caravaggio.
[codice-adsense-float]I dati che essa pubblica sono etremamente interessanti per noi. Innumerevoli copie del Battista di pittori caravaggeschi, tra l’altro, dimostrano proprio il contrario. Caravaggio come tutti gli altri, si inserisce in una tradizione figurativa con convenzioni che possono essere interpretate da ogni singolo pittore, allo stesso modo in cui un musicista esegue un pezzo musicale. Per esempio il San Giovannino Battista dei Musei Capitolini, da poco restaurato, presenta un verbasco.
Questo è un elemento distintivo del Battista. La Von Rosen, purtroppo non applica a fondo il metodo iconologico, non considera ogni elemento minimo significante e non considera minimamente l’elemento del verbasco, che serve a fugare ogni ambiguità, poiché il nome volgare è Verga di San Giovanni, quindi il dipinto, nonostante le ambiguità da lei sottolineate, presentando comunque uno degli attributi di ordinanza, come li hai chiamati tu, non può che essere un San Giovanni Battista giovane. Oggi noi abbiamo dimenticato molte cose.
Il mestiere dello storico è quello di essere il più possibile vicino al modo di pensare del passato, e per fare questo non bisogna farsi sfuggire neppure una foglia. Si tratta di un processo di decodifica, che presuppone come per ogni codice, un’attenzione filologica al documento figurativo. Lasciare da parte un elemento senza considerarlo nel suo palinsesto storico è riduttivo, la mancata applicazione del metodo in ogni parte del documento, può generare un cul de sac nell’interpretazione: lasciar da parte un elemento può portare a non comprendere la convenzionalità della figura e di conseguenza anche l’intenzione dell’autore, che, almeno in questo caso, non era per niente ambigua. Ma la Von Rosen ha discusso questo saggio nel 2002, quando il mio articolo che restituisce il significato del verbasco in Caravaggio (pubblicato su Paragone Arte) non era ancora uscito, e io non ero ancora nessuno. Forse dovrei cercarla per parlare con lei, sarebbe bello incontrarla in mostra. Sicuramente sarebbe un confronto utile per entrambi.
Sempre nel suo saggio scrive: “L’iconografia del Buon Pastore si è estinta in epoca paleocristiana”. Non è un po’ debole, come risposta, portare a smentita due casi seicenteschi di sopravvivenza del tema e la “passione per le pecore ellenistiche” del cardinal Borghese?
In realtà non c’era spazio per discutere il problema in modo sufficientemente ampio. L’iconografia del Buon Pastore vede una ripresa proprio nel Seicento. Pierre de Champaigne e Murillo sono solo i casi più famosi di ripresa. La cosa importante, che non abbiamo detto per motivi di spazio, è che la Chiesa Cattolica Romana, in quegli anni aveva un principale nemico: la Chiesa Protestante. Caravaggio non è nuovo a questo tipo di messaggi politici.
Ad esempio nella Conversione di Saulo inserisce elementi suntuarij che attraverso il vestiario dei soldati e di Saul rimandano alle principali religioni monoteistiche non cattoliche del Mediterraneo. Ho discusso questo aspetto alla conferenza della Renaissance Society of America questa primavera a Venezia. Altri studiosi hanno notato che, per esempio, il San Matteo nella Chiamata della Cappella Contarelli è vestito da ebreo, questo acquista un significato pregnante sapendo che il parroco della chiesa di San Luigi faceva corsi di catechesi agli ebrei battezzandi, che stavano per convertirsi al cattolicesimo, e quindi il dipinto aveva una funzione retorica oltre che decorativa. La stessa cosa avviene col Buon Pastore.
La Chiesa di Roma si riteneva depositaria della Verità, e come tale cercava di ostacolare la setta eretica dei Prostestanti, che le aveva tolto molti fedeli (soprattutto nel nord Europa). Uno dei cavalli di battaglia della propaganda romana era proprio la restaurazione e la ri-valorizzazione dei monumenti e dell’iconografia paleocristiana, che dimostravano la continuità millenaria della Chiesa romana con quella paleocristiana, cosa sulla quale, la neo-fondata “setta” dei Protestanti non poteva contare. Basti pensare all’esempio del restauro di San Giovanni in Laterano ad opera di Borromini.
Sulla passione per le pecore ellenistiche di quel torno d’anni si potrebbe portare a testimonianza tutto il gregge di pecore marmoree che i collezionisti romani di quel tempo accumularono. Fatto sta che il dipinto di Caravaggio è fatto per far vibrare le corde del Borghese, diviene più classicista, forse (absit iniuria verbis) è una vera e propria “sviolinata”.
Scrive Rossella Vodret nel saggio a sua firma in catalogo: “Risalta l’eccezionale invenzione compositiva del dipinto che ha caratteri di forte sensualità”. È compatibile questa sensualità con il tema del Buon Pastore? O la sensualità – absit iniuria verbis – è solo nell’occhio di chi guarda? La (proposta) derivazione dal Dioniso di Lisippo è solo formale o alluderebbe all’anima bacchica, “sfrenata e sensuale” (come scrive Muscillo nel proprio saggio)?
Il tema della sensualità fa capo all’amor sacro. Veicola l’anima a Dio. Oggi noi non sappiamo neppure più che cosa sia, questo sentimento mistico che portava all’estasi (si pensi alla Santa Teresa di Bernini). Un corpo seminudo accende subito la malizia. Ma è improprio, in un’epoca di sincretismo mitologico e religioso come il Seicento, ridurre il modello a un pastorello del sud in posa per le foto pederotiche del barone Von Gloeden (cosa che è pure stata detta).
Né Vodret né Muscillo, perciò, sbagliano a sottolineare l’intensità comunicativa dell’immagine che ha la funzione retorica di creare un rapporto simpatetico tra riguardante e spettatore, sul filo della passione. Muscillo però, dimostra chiaramente che il valore sfrenato e sensuale del paganesimo è filtrato attraverso la cultura arcadico evangelica del Buon Pastore. In effetti se pensiamo al testo del Vangelo, quello che per noi ha il nome di Buon Pastore, in realtà è detto kalòs, cioè Bel Pastore, e la bellezza è in questo caso una kalokagathìa, cioè il bello e buono che contamina sensualità estetica e moralità. Dopotutto il Buon Pastore è una figura di Cristo fanciullo, e la tradizione figurativa di Gesù lo vuole comunque ritratto come un bell’uomo (come potrebbe essere diversamente?).
MICHELANGELO MERISI DA CARAVAGGIOCHIUDER LA VITA
Esposizione straordinaria del San Giovanni Battista della Galleria Borghese
PORTO ERCOLE
Chiesa di Sant’Erasmo
Dal 18 luglio al 18 agosto 2010
Catalogo SKIRA
Informazioni:
Numero Verde 800 14 96 17
www.comunemonteargentario.it
http://cultura.eni.com
Orari:
da lunedi a sabato :9.00-12.00; 18.00-24.00
Domenica 11.30-13.00; 18.00-24.00
Ingresso libero