In questa puntata del suo reportage su Creta Marco Grassano racconta la gita sull’isola di Spinalonga.
Manca ancora tempo alla partenza per Spinalonga. Prima di salire a bordo, da sopra la scogliera artificiale che regge il molo contempliamo a lungo l’acqua: subito ai nostri piedi chiara, trasparente, così da mostrare i ciottoli del basso fondale, la loro ampia gamma cromatica e i mutevoli giochi di ombra e luce che li screziano; via via più azzurra man mano che lo sguardo si allontana.

Nei mesi scorsi ho letto, sottolineato e annotato un magnifico manuale: How to read water, del navigatore ed esploratore britannico Tristan Gooley. Mi vengono alla mente alcune frasi dei capitoli “Il colore dell’acqua” e “Luce e acqua”, indicazioni utilissime per interpretare il fenomeno ottico che stiamo osservando.
“La prima cosa da tenere presente quando cerchiamo di capire i colori che vediamo nell’acqua è stabilire se, di fatto, stiamo guardando l’acqua o quel che essa riflette. (…) Il mare visto da lontano è un buon esempio di immagine riflessa. Ciò che vediamo da quella posizione è dominato dal riflesso del cielo ancora più lontano. È per questo che il mare in lontananza sembra blu quando il tempo è bello, e grigio quando il cielo è coperto”.

“Senza la luce che la colpisce, l’acqua non ha alcun colore; è la luce che dà il colore all’acqua. (…) L’acqua pura è incolore, ma allo stesso tempo assorbe il colore. Quando la luce bianca colpisce l’acqua, una parte di essa viene riflessa e una parte viene assorbita dalle molecole d’acqua. La luce che entra nell’acqua è composta da tutti i colori dell’arcobaleno, e i colori non vengono tutti assorbiti nello stesso modo. I rossi, gli arancioni e i gialli sono assorbiti dall’acqua più facilmente che non le tonalità del blu. Di conseguenza, maggiore è l’acqua che la luce bianca deve penetrare, maggiormente carico sarà il blu quando la luce riappare”.
“Nell’acqua poco profonda, ciò che sta sotto avrà un impatto enorme sui colori che vediamo guardando l’acqua che sta sopra”.
“I disegni luminosi sul fondale sono formati dalla luce che attraverso l’acqua è riuscita ad arrivare fino al fondo, mentre le sagome strane che si riformano in continuazione sono il risultato delle piccole onde sulla superficie dell’acqua. Queste ondulazioni fanno sì che la superficie dell’acqua si comporti come una lente, che mette a fuoco la luce in alcuni punti ma non in altri e crea quindi quel disegno fatto di linee luminose e punti più scuri”.
Prendiamo posto sulla panca che corre lungo la murata di tribordo dello scafo ligneo. Seduto davanti a noi, un pope ancor giovane, castano, dalla barba rada e dai capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, con indosso la tonaca integrale e il berretto a tozzo tronco di cono d’ordinanza, stringe assorto fra le mani un bicchiere di cellulosa trasparente, in cui si nota un copioso rimasuglio di granita al caffè. Forse pensa all’omelia che deve pronunciare oggi.

Trovo nella nostra guida alcune notizie sull’isolotto che stiamo per visitare: antico forte veneziano (1579 – 1715) e quindi turco (1718 – 1898); poi, dall’inizio del XX secolo alla chiusura e alla completa evacuazione (1962), lebbrosario – vicenda, quest’ultima, resa celebre da uno sceneggiato trasmesso nel 2010-2011, oltre che da un cortometraggio diretto, nel 1968, da Werner Herzog.
Scopro che il nome della baia in cui ci troviamo è Mirabello. Il signor Castellano menzionato sulla stele mortuaria all’ingresso della chiesetta era dunque di quaggiù: non di Tortona e neppure del Monferrato.
Partiamo rombando e procediamo in tenue beccheggio. Spinalonga ha davvero l’apparenza di una testuggine, poggiata in cima ai bastioni. Il capo del rettile lo rappresenta il tondo, elevato baluardo proteso verso sud. Avvicinandoci, riusciamo a distinguere tutti i muri – alcuni integri, altri completamente sgretolati – che istoriano il guscio, e le vaporose chiome delle tamerici in scomposto corteo sulla riva.
Sbarchiamo. Di fronte all’approdo crescono, nelle aiuole delimitate da uno spesso cordolo di pietra o in ciuffi sparsi nel terreno, tamerici col fogliame patito. Il casotto di assi marroni, quasi da boscaiolo, della biglietteria, dove ci mettiamo in rapida coda. L’ingresso costa 8 euro, ma per gli studenti è gratuito. Due successive passerelle di legno consentono di salire più comodamente al profondo portale tondeggiante che trapassa alla base gli spalti e mette all’interno dell’area fortificata. Una donna tracagnotta, con pettorina identificativa, controlla i biglietti e ci fa passare.
Sulla sinistra, le prime piccole case cubiche, ricostruite da poco. Dirimpetto a esse, una serie di scalini di pietra porta su a un torvo palazzotto squadrato, con un balcone in legno, di foggia castigliana. Da lì si monta ancora verso il torrione, cui non si riesce però ad accedere perché una coppia di flemmatici operai edili sta lavorando a rifare alcuni muretti a secco, e i materiali d’opera ingombrano il passaggio. Voltandoci per ridiscendere, possiamo comunque osservare l’apice deserto dell’isola frontaliera e gli scogli che lo precedono, incastonati nell’argentea schiuma della maretta.

Torniamo a percorrere il camminamento principale, pieno di rappezzi in cemento. Intonaci neutri e infissi in tinte gradevolmente vistose: rosso, giallo, azzurro, verde, blu. I piccoli edifici sono aperti e appaiono completati, all’interno, da leggere anime (soffitti, scale) di legno grezzo.
Visitatori entrano ed escono. Al piano terra, ridotte esposizioni a tema. L’insieme documenta le vicende e le vicissitudini dell’isola, dai tempi più remoti cui si sia riusciti a risalire fino alla vita quotidiana del personale sanitario e dei ricoverati nel lazzeretto: antiche lapidi cimiteriali; pietre piatte con incisi una scacchiera e una specie di labirinto, per giochi da tavolo; fiale, ampolle, strumenti medici, posate… Un caminetto, perfettamente pulito. Fuori, un forno per il pane, in cui la cenere depositata e lo sbaffo di fuliggine rivelano invece un uso recente.

Una scheda didascalica plastificata ricorda i meriti dello storico italiano Giuseppe Gerola (Arsiero, 1877 – Trento, 1938), che dedicò ben 27 anni a redigere – su incarico del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti – l’importante studio, in quattro volumi, Monumenti veneti nell’isola di Creta [NOTA 1].
Il resto dei fabbricati – se si eccettua la linda chiesuola, costeggiata da alti cipressi, che scorgiamo più in là – è rimasto in completa rovina. Cartelli bianchi con le scritte in rosso invitano a non entrare, o a prestare attenzione al pericolo. Un gatto tigrato di fulvo, ben pasciuto e lustro perché unico felino dell’isola, si arrampica su gradini sbilenchi.
Arriviamo all’altezza del tempietto. Vi sosta una comitiva di brasiliani di diverse età, ai quali una guida indigena si sta rivolgendo con buona padronanza del loro portoghese nazionale. L’uomo (tarchiato, moro, con una “polo” verde e un berretto a visiera beige) informa i suoi assistiti che questa cappella è dedicata a São Pantaleão. Parla loro delle difficoltà economiche che la Grecia ha attraversato negli ultimi anni.
Cita anche il serial televisivo, tratto dal romanzo di una scrittrice inglese residente a Creta e girato proprio quaggiù, malgrado il morso della crisi: 26 episodi che hanno ottenuto un enorme successo di pubblico, raggiungendo punte del 70% di share [NOTA 2]. I lusofoni, accaniti consumatori di telenovelas, lo ascoltano con attenzione.

Il portone è spalancato. Guardiamo dentro e riconosciamo il pope del battello. Armeggia con un mazzo di lunghe candele, accendendole e disponendole negli appositi supporti ai piedi delle immagini sacre, poi va sul fondo della navata, probabilmente in preparazione della messa.
Il pensiero mi corre subito a una bella poesia del sempre opportuno Kavafis:
“Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese –
dorate, calde, e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine dànno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.”
Aggirarsi tra questi muri mozzi, ponteggi rugginosi, edifici sventrati, usci sbadiglianti, tetti crollati, sassi divelti, dove spunta qualche dimesso arbusto selvatico, produce lo stesso effetto malinconioso di una visita alle molte frazioni semivuote che costellano le nostre valli appenniniche. Anche da noi, a Vigana di Dernice, ci sono angoli così.

Un traliccio di legno grigiastro sostiene una pergola a cavallo del vicolo centrale. In uno stanzone che ha mantenuto in piedi la sua solida cupola a quattro vele convergenti, giace di traverso un grosso cilindro arrugginito e pieno di tubi, con ogni evidenza una vecchia caldaia o un serbatoio d’autoclave. Chissà perché, mi ispira una sorta di inquietudine, di disagio.
Una breve scalea conduce in giù, verso una porta inferriata – aperta nelle mura – che dà sul malmesso, tozzo pontile laterale: penso destinato ai rifornimenti. Dalla piattaforma si coglie una visione a tutto campo della costa e del mare a essa trascolorante. Sui fianchi, piccoli spiazzi di tamerici provate dalla siccità e dal salino. Forse agli infermi era consentito sostarvi per esporre le proprie piaghe al tocco benefico dei raggi solari, come si racconta in La casa verde di Mario Vargas Llosa.
Ulteriori gusci di costruzioni, completamente svuotati. Sulla sinistra, gli spalti terminano con una guardiola inaccessibile. Verso destra, mordono il pendio di sasso due casermoni tutti puntellati, divisi da uno scalone sfatto e corrosi dal cancro del calcestruzzo, che ha riportato alla vista i ferri di pilastri e balconi. Probabilmente, si tratta dei vecchi reparti.
Da qui in poi gli edifici cessano. La viuzza diviene un camminamento senza pavimentazione, assistito, verso l’acqua, da una solida staccionata di legno, mentre sulla ripa si inerpicano un tozzo pinastro e, come a Malta, un fitto grappolo di fichi d’India.
Arrivati al capo nord dell’isola, lo stradello piega di novanta gradi, stretto fra il fronte roccioso (perpendicolare, in questo punto estremo: così da mettere in bella evidenza i propri spessi strati geologici) e il riapparso bastione fortificato, su un livello inferiore, tondeggiante, pieno di feritoie.
Appena prima della svolta, un sentiero di ciottoli franti, cinerini, si ertisce lungo il rilievo orografico centrale. Accanto a noi, indugia una famiglia abbastanza matura. L’uomo, snello, invita in piemontese la moglie a imboccare il viottolo: “Dùma sü?”. Facendo finta di nulla, saliamo, per un tratto, anche noi, fra residui di pareti e sporadiche conifere contorte, fino a sovrastare il fatiscente, mutilo caseggiato.
NOTE
- Per chi fosse interessato, l’opera è reperibile, in riproduzione, sul sito di Archivio Studi Adriatici.
- Notizie (in italiano) sullo sceneggiato si trovano sul sito dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa.
Trentaquattresima parte – Segue
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano
Didascalie:
- L’isolotto di Spinalonga
- La copertina del libro di Tristan Gooley
- Le casette ricostruite della fortezza
- Antichi giochi da tavolo
- Il pope in chiesa
- Il vicolo centrale