Il trionfo, nell’edizione 2021 degli Academy Awards, della pellicola “Nomadland” trainerà sicuramente con sé l’omonimo racconto-inchiesta di Jessica Bruder, di cui Ilaria Cattaneo ha parlato esaustivamente in una bella recensione su queste stesse pagine (“Nomadland”: un viaggio nell’America che non ti aspetti, ndr).

Il tema del libro mi interessa moltissimo, sia a livello concettuale che strettamente personale: l’abbandono (forzoso o volontario) di una fissa dimora e del tanto agognato posto di lavoro stabile, per dedicarsi a lavori occasionali, muovendosi all’inseguimento degli stessi, fino a divenire parte di una comunità nomade che vive la professione non come componente della realizzazione personale, ma come semplice mezzo di sussistenza, superando la schiavitù del possesso e del consumo, per un’esistenza scevra da vincoli materiali (perfino dalla casa).
È una riflessione che faccio regolarmente ogni mattina, mentre vado al lavoro.
Vivere da hippy
Nel 1999 viaggiai in lungo e in largo nel Southwest degli Stati Uniti, e passai un paio di giorni sulle sponde di Lake Powell. Qui incontrai numerosi di questi nuovi nomadi, con i loro sgangherati caravan in metallo luccicante, a pochi passi dalle acque del lago formato dalla Diga di Glen, non lontano da Las Vegas.
Fu interessante, vivere da hippy, accettando la loro offerta di condivisione del cibo e della birra, ascoltando ciò che raccontavano strimpellando la chitarra. Fu finanche educativo, perché mi mostrò (proprio a me, cresciuto nella tipica famiglia lombarda basata sulla tetralogia di canoni “famiglia-casa-carriera-benessere economico”) una differente visione della vita. Questi nomadi non avevano l’aspetto degli emarginati o dei disadattati.
Qualcuno potrebbe battezzare la loro condizione con termini giudicanti: fuga, “decremento felice” o, peggio, fallimento. A me, il loro sembrò più che altro un rifiuto dei convenzionali principi borghesi, e dei condizionamenti del consumismo estremo.
Leggendo la recensione di “Nomadland” mi sono venuti alla mente un po’ di titoli da recuperare in libreria.

“Back to the wild”, di Christopher McCandless, prima di tutto, da cui Sean Penn ha tratto “Into the wild”. A differenza dei personaggi di “Nomadland” (che intraprendono il proprio cammino perché non riescono a fronteggiare i crescenti debiti), Chris (il protagonista) compie una scelta radicale, rinunciando agli agi borghesi garantitigli dai genitori, ben collocati nel tessuto della classica provincia perbene americana. Ciò in antitesi con quel materialismo capitalista che piega gli individui alla logica dell’“habeo ergo sum”. Questa rinuncia, diciamolo, lo condurrà alla morte.
On the road
Lo scrittore americano Paul Auster, nel bellissimo “Moon Palace”, narra una doppia storia di annullamento che si manifesta, concezione tutta americana, nella perdita totale del benessere economico. Il protagonista, M.S. Fogg, si ritrova a vivere come un senza tetto nelle grotte di Central Park, finché incontra Thomas Effing, un vecchio milionario che lo adotta e gli racconta la storia della sua gioventù brada, trascorsa nei canyon deserti dell’ovest a dipingere. Fogg aiuterà Effing a disfarsi della sua sterminata ricchezza, prima di intraprendere un ennesimo viaggio di rinascita verso San Francisco. È curiosa la coincidenza fra il nome della città meta del viaggio, e quello del fraticello di Assisi che per primo si spogliò di ogni avere.
“Nomadland”, “Back to the wild”, “Moon Palace”: tre libri on the road, un tema tanto caro agli scrittori americani da Jack Kerouac in poi, e altrettanto caro a Hollywood: è forse una metafora dell’abbandono delle radici culturali a stelle e strisce, in particolare del capitalismo cannibale in perenne crisi?
Due parole mi rimbalzano nella testa: crisi e possesso, crisi e possesso. E mi rendo conto di un curioso cambio di coordinate.
Dopo lo scoppio della bolla dei mutui sub-prime, e la conseguente crisi economica del 2008, divenne popolare il concetto di società liquida teorizzato dal sociologo polacco Zygmunt Bauman: la crisi delle strutture sociali fino a quel momento consolidate, messe in discussione dalla crisi economica, hanno reso le relazioni interpersonali oltremodo flessibili e fluide. Addirittura, volatili. A causa di ciò, gli individui si isolano, ma cercano stabilità attraverso il feticcio del possesso di beni acquistati. L’effetto di questa svolta è la metamorfosi dell’individuo, trasformato egli stesso da consumatore a oggetto, bersaglio dei produttori e del marketing, e schiavo delle società finanziarie che rilasciano prestiti e finanziamenti.
Succubi del marketing
C’è un meccanismo interessante da esaminare: il marketing crea degli status symbol (automobili di lusso, smartphone di ultima tecnologia, ecc.) proposti alle classi meno abbienti come il mezzo per affermarsi nella società ed essere pari dei veri ricchi; gli istituti finanziari rendono possibili questi acquisti mediante finanziamenti, rateizzazioni, carte di credito, e altri strumenti che in seguito si trasformano in tentacoli che stritolano il consumatore, divorando lui e il miraggio a cui tendeva.
Concetto che è alla base di “Nomadland”: schiacciati dai debiti, rimasti senza relazioni interpersonali solide, molti si buttano alle spalle la propria realtà e migrano, come animali in cerca di un contesto accettabile, non più schiavi del miraggio del successo professionale né del possesso di status symbol.
La migrazione si lega sempre a una crisi. In greco antico κρίσις, significa decisione.
John Steinbeck descrisse quella della famiglia Joad, che in “Furore” abbandona la propria terra e percorre la Route 66 diretta verso la California (il miraggio per antonomasia), alla ricerca di un’esistenza migliore. Siamo ai tempi della Grande depressione, il primo vero scossone subito dalla struttura capitalista e al libero mercato; non per niente, in seguito al crollo di Wall Street, in Europa si instaurarono tre regimi totalitari (nazismo, fascismo e stalinismo) che, al netto di fanatismi e atrocità, hanno come fondamento economico il superamento del liberismo selvaggio.
La parabola dello yuppismo
Sul fallimento dei modelli capitalisti (senza dover risalire a Karl Marx che lo studiò e lo comprese profondamente), si sono scritti moltissimi romanzi. Prima di concludere ne menzionerò due, per me molto significativi benché urtanti, perché descrivono in modo crudo la parabola dello yuppismo di Manhattan, ossia la catastrofica fine di chi ha provato a cavalcare quella tigre, venendone divorato: “Bright lights, big city” di Jay McInerney (in italiano “Le mille luci di New York”) e “American psycho” di Bret Easton Ellis.

Entrambi descrivono l’ebbrezza e la sensazione di onnipotenza che pervade la vita artificiale e vacua e sempre al top di due manager che vivono il miraggio del successo in pieno reaganismo. Successo che si declina in belle donne, belle macchine, cocaina, locali esclusivi, uffici posti in cima ai grattacieli del centro di Manhattan. La caduta è dietro l’angolo, ed è fragorosa.
Ma se per il protagonista del libro di McInerney si prospetta timidamente una rinascita segnata da una nuova consapevolezza (con il profumo del pane appena sfornato che sembra proporre una nuova Recherche), per il Patrick Bateman di “American Psycho” l’orizzonte definitivo è la follia.
Così assistiamo al continuo crollo di un sistema, il capitalismo, che tuttavia si rigenera di continuo, per diventare sempre più vorace e resistente.
Simone Cozzi