Questa mattina, nella stazione del metrò di Porta Genova, dove ero sceso per poi raggiungere a piedi un bel locale a pochi passi dai navigli in cui doveva svolgersi un evento professionale che si sarebbe rivelato entusiasmante, una bambina africana che avrà avuto all’incirca tre anni si è precipitata fuori dal treno sfuggendo al controllo della madre, che invece è rimasta sul vagone non riuscendo a scendere perché impacciata dalla carrozzina del bambino più piccolo, e si è ritrovata da sola sulla banchina.
La corsa disperata della piccola che inseguiva il convoglio ripartito ha proiettato nei miei occhi una delle scene più strazianti cui mi sia toccato assistere di presenza.
Quando si è resa conto che non avrebbe mai potuto raggiungere il treno e farlo arrestare, è tornata indietro in preda al panico e con gli occhi spalancati dall’angoscia e come primo gesto si è aggrappata ai pantaloni di un uomo che stava assistendo alla scena ma che in breve si è allontanato. Si è dunque rivolta, piangendo, urlando, invocando la mamma e respirando a fatica, a coloro che le si erano fatti intorno: quattro signore di mezza età e il sottoscritto. Una di queste donne, peraltro, per quanto intenerita dalla bimba, ci ha tenuto a sottolineare, con una certa asprezza, che la responsabilità di quanto accaduto fosse della madre, impegnata a conversare al cellulare e dopo poco si è dileguata.

Ci siamo rivolti alla piccola in italiano, in inglese e in francese ma a quanto pare non comprendeva nessuna delle tre lingue e credo che ciascuno di noi in cuor suo abbia maledetto la Torre di Babele. Una delle signore allora l’ha presa in braccio, tenendola stretta e accarezzandola per tentare, a dire il vero invano, di consolarla e calmarla mentre noi altri cercavamo, con gesti e sorrisi, di farle comprendere che la mamma sarebbe tornata presto, che c’erano treni che tornavano indietro e l’avrebbero riportata da lei. Poche volte mi sono sentito così inutile.
È stato inevitabile andare con il pensiero ad altri bambini cui il mondo riserva terrore e disperazione e senza la possibilità di un convoglio della metropolitana che possa compiere il percorso di ritorno in senso inverso.
Mentre le donne la tenevano a turno in braccio, sono scesi sulla banchina anche alcuni addetti dell’Azienda Municipale dei Trasporti, che senza sapere che la bimba non parlava la nostra lingua hanno provato anch’essi a tranquillizzarla.
Un ragazzo con la maglia dell’Inter e il cellulare appoggiato a un orecchio ci si è avvicinato e ci ha detto che era tutto a posto: la mamma era salita sul treno in direzione contraria che era appena partito dalla fermata successiva. Forse si era messo in contatto con un amico che si trovava lì oppure aveva contattato direttamente la stazione. Mi sono così reso conto di quanti si stessero in qualche modo prodigando. C’è molta oscurità nel cuore degli uomini ma anche una scintilla di bene che per cancellarla bisogna lavorare malignamente e alacremente.
Il treno è finalmente arrivato sul binario opposto e i passeggeri ne sono scesi. Mi sono spostato dalla banchina ai piedi della scala per la quale sarebbe arrivata la madre, ipotizzando che anche lei avesse necessità di rassicurazioni.
Quando la donna è comparsa in cima, aveva però ben altro cui prestare attenzione che ai miei goffi gesti. Profondamente affannata e agitata, aveva sollevato e stretto a sé in orizzontale la carrozzina ed era impegnata ad affrontare i gradini il più rapidamente possibile senza cadere. Ho potuto quanto meno avvertire le tre signore e invitarle a raggiungermi, così da abbreviare anche se di poco l’attesa del ricongiungimento.
Terminata la discesa, la madre, alta e robusta e vestita con un abito tradizionale africano, ha appoggiato per terra la carrozzina, ha spalancato le braccia e si è lanciata in un abbraccio che oltre alla figlia ha incluso la donna che in quel momento la stava tenendo in braccio. Sono rimaste così per una ventina di secondi. Poi ha preso la bambina, si è seduta esausta sulle scale e mentre armeggiava per estrarre dalla borsa un biberon con cui consolare e rifocillare la piccola ci ha ripetuto tra le lacrime “grazie” in un italiano stentato almeno una decina di volte.
La bimba aveva smesso di piangere e il terrore le stava scomparendo dagli occhi. Adesso rivolgeva a turno lo sguardo su di noi, cercando di mettere a fuoco i nostri volti, comprendere chi fossero quelle persone che si erano prese cura di lei in quei terribili minuti.
Quanto a me, ho raggiunto i colleghi con le mani che ancora mi tremavano leggermente e ho iniziato a raccontare l’accaduto.
Quanto a te, piccolina, dimentica, dimentica tutto, spingi questa manciata di minuti in fondo a quel contenitore ancora acerbo della memoria che diverrà inattingibile e inaccessibile con gli anni a venire oppure, se puoi, conserva la consapevolezza che esiste anche la possibilità di un treno che riavvolge il corso delle cose, riconsegna le madri e spegne gli incubi.
Giovanni Granatelli
I libri più recenti di Giovanni Granatelli sono Nomi, cose, musiche e città (Arkadia, 2023), Resoconto. Poesie 2002-2022 (Scalpendi, 2023) e Spostamenti. Prose e racconti (Nardini, 2022).