È un giovane di una corporazione. Con una vellutata barba, un pizzetto e corti capelli rossi. Al collo, neanche a dirlo, una gorgiera. Venticinque, trent’anni al massimo, non di più. Denti cariati, un principio di sifilide, vino scadente nelle vene. Negli occhi il respiro tiepido di un cielo che muta in continuazione.
Si è arricchito. E un giorno deve essere finito lì a posare. Lasciamoci dipingere dall’imbrattatele, gli hanno detto. La goliardia ha vinto su un’educazione di privazioni e stenti. Preghiere e alcun lusso.
Così ha permesso che una mano tratteggiasse la sua ignara bellezza ‒ sconosciuta anche alle sue puttane abituali ‒ e i suoi occhi, di volta in volta, mesti, beffardi, strafottenti.
Nessun’altra traccia di passato.
Nessun vascello salpa per l’Indonesia per lui.
È morto, per strada, sussurrando al cielo. Una morte oscura, da accattone, la sua. Per un investimento sbagliato. Per una partita di troppo. O per una passione che i tulipani hanno tradito.
Non racconta altro, il giovane. Non rivolge un monito, né una richiesta ai visitatori.
Ora, vive in un’attesa di sole. Di cieli stropicciati. Di venti che si fanno respiro.
Tra noi c’è un patto: non chiedere e non sapere.
Lo rivedrò? Nel frattempo il museo è stato chiuso.
Se cercassi informazioni, i suoi occhi scolorirebbero. Per l’Olanda ‒ che, all’improvviso, mi si è mostrata per mano d’un ignoto pittore di maniera e non nei canali, non nelle finestre ‒ diventerei un corpo estraneo. Da amputare.
Claudio Cherin