
Il reportage di Marco Grassano sulla città di Porto prosegue con la gita ad Aveiro, a una settantina di chilometri più a sud.
Ci portiamo direttamente al binario 4. Mi piazzo, come ieri, sui sedili di sinistra, accanto al finestrino, dando le spalle alla direzione di marcia. Il treno parte alle 9.05. Si ferma nella stazione di Campanhã, dove sosta per diversi lenti minuti. Salgono, con le loro valigie, due donne brune di età diverse – si direbbero madre e figlia – che prendono posto un po’ più avanti rispetto al mio punto di osservazione, sull’altro lato della carrozza.
Il convoglio si rimette in cammino tornando parzialmente indietro, per poi deviare, al primo scambio, verso sud, sul nuovo ponte ferroviario di S. João. Osserviamo, dalla stessa altezza, la desolazione del ponte eiffeliano in disuso. Anche stamattina, il cielo ha un aspetto fosco. La città appare intrisa da un grigiore autunnale, come all’inizio di Húmus, di Raul Brandão, che leggevo ieri sera – “Su tutto questo, un tono annerito e uniforme: l’umidità invisceratasi nella pietra, il sole invisceratosi nell’umidità”.
Usciti da un tratto in galleria, iniziano le fermate. La pronuncia cibernetica dei diffusori è, come sempre, assai opaca; mi annoto quindi i nomi copiandoli dai cartelli: General Torres, Vilanova, Cambrões, Valadares, Francelos, Miramar, Aguda…
Passa il controllore. Si sofferma a discutere con le due donne – dall’accento, si direbbero brasiliane – armeggiando sul suo palmare: non hanno i tesserini magnetici, ed esibiscono fogli coi rimandi ai biglietti digitali acquistati in rete. Uno dei casi in cui le diverse tecnologie non interagiscono e l’ottimo diventa nemico del buono.
Il paesaggio si evolve di continuo. Brutti scorci urbani, capannoni dalla triste figura, orti rachitici, altri capannoni. Sobborghi di ecomostri o di case basse e laide. Enormi scritte acriliche su muri di cemento. Campagna degradata. Flabelli di canne piumose lungo le scarpate. Sobborghi. Ci avviciniamo all’oceano, che compare a destra. Lungo i camminamenti di legno a palafitta che assecondano le spiagge, fra dune e radi cespugli, qualche persona passeggia, malgrado la meteorologia non invitante.
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Il treno si imbuca sottoterra per raggiungere la tenebrosa stazione sepolta di Espinho, poi riemerge incanalato fra muraglie di calcestruzzo. Di nuovo capannoni. Una lunga area incolta dalla vegetazione scarmigliata. Vie a scacchiera di villette periferiche. Gli elementi paesaggistici si ripetono in alternanze e combinazioni diverse. Carvalheira. Dopo un lungo tratto di vegetazione stenta, un’area brulla solidamente cintata, barrata da un filare di alberi di fronte al quale si estende la scritta gialla – leggibile solo dai binari – Salvador Caetano: chissà di cosa si tratta. Alternanza tra aree incolte orlate di canneti e orribili capannoni.
Le fermate si susseguono: Esmoriz, Cortegaça, Ovar, Válega, Avanca, Estarreja, Salreu, Canelas. Le relative stazioncine hanno un aspetto dignitoso: alcune ridotte al minimo indispensabile per il riparo dei passeggeri dalla pioggia, ma comunque ordinate e pulite; altre, come Esmoriz, Ovar e Avanca, molto più grandi, imbiancate a calce e decorate con scene o geometrie di azulejos.
A Ovar, mi rimane impresso il piccolo capannone della ditta Valmet, magari, anche lì, “Valenza Metalli”. Passata la stazione di Válega, una casetta bianca ci porge alla vista la sua finestra a balcone moresca, che asseconda l’angolo del tetto. Ad Avanca scorgiamo un enorme pannello fotovoltaico. Prima della fermata di Canelas, il paesaggio migliora decisamente verso ovest e, superato il minuscolo borgo, anche verso est: ora è interamente istoriato da verdi ghirigori di alberi e tagliato da canali naturaliformi.
I capannoni, però, non mollano la presa: subito dopo un placido fiume dalle rive verdeggianti – ampio abbastanza da albergare al centro un isolotto selvoso – che la cartina ci dice essere il Vouga, ecco una titanica fabbrica con silos, torri e alti camini – forse un cementificio – precedere di pochissimo la fermata di Cacia. Dall’altro finestrino, si vedono le vasche di ossigenazione e di sedimentazione del depuratore.
I vetri si sono nel frattempo rigati di pioggia. Campagna e capannoni. Villette basse poco eleganti, anche quando piastrellate in un discutibile verdino. Ancora capannoni, con enormi parcheggi: della Bosch, della Vulcano. Ulteriori capannoni. Un’autostrada a due carreggiate corre perpendicolarmente, e ad angolo retto, sotto di noi, combinandosi con altre strade e viadotti. Palazzi da incubo frammisti a case abbandonate o decisamente in rovina.
Dopo alcune centinaia di metri percorsi in uno spazio ampio e aperto, orlato a destra da poco gradevoli condominii, approdiamo alle numerose banchine della stazione di Aveiro, semplice punto di passaggio lungo la Linea Nord ma capolinea per la nostra corsa. Sulla destra, appena prima della struttura nuova, il mosso prospetto a calce, i serramenti bianchi e le raffinate vignette di piastrelle azzurre della sede storica – ormai, però, con mera funzione decorativa e aspetto molto trasandato.
Smontiamo sotto l’enorme tettoia di ferro, lamierino e vetro che protegge tutti i binari. Diversi passeggeri sono già pronti a prendere posto sulle vetture per il viaggio in senso inverso, in partenza fra un quarto d’ora. L’altoparlante annuncia il transito del comboio intercidades proveniente da Lisbona e diretto a Porto.
Scendiamo nel sottopassaggio dirigendoci verso l’uscita. L’area sotterranea è vasta e offre tutto ciò di cui un viaggiatore necessita: biglietteria, bar, telefoni, servizi igienici, vetrine. Risaliamo da un’ampia scala, in corrispondenza di un fabbricato basso, con l’aria da centro sociale, sulla cui parete spicca un gigantesco volto kafkiano realizzato asportando parzialmente l’intonaco e facendo tracciare i lineamenti dai mattoni messi a nudo [1].
Dietro l’angolo dell’edificio, in una bacheca, un cartello a grandi caratteri rossi e neri, disposti tipograficamente come in una composizione futurista, riporta questa frase, attribuita a Saint Exupéry: Aqueles que passam por nós, não vão sós, não nos deixam sós, deixam um pouco de si, levam um pouco de nós, ossia “quelli che passano da noi, non se ne vanno soli, non ci lasciano soli, lasciano un po’ di sé, si portano via un po’ di noi”. C’è del vero, per quel che mi riguarda, almeno considerando le immagini impresse nella memoria.
Piove, senza particolare intensità ma con fastidiosa costanza. Per fortuna siamo muniti di ombrelli. La stazione mostra, anche fuori, una conformazione di tendenza: non merlettata alla Santiago Calatrava, ma lamellata, a tutta altezza, da una fitta serie di prismi di calcestruzzo paralleli e verticali, che fanno semmai pensare a un Vittorio Gregotti dei poveri. La facciata della sede antica presenta le stesse caratteristiche del suo lato interno: elaborati azulejos, vistose scrostature, erba sui cornicioni.
Imbocchiamo, di fronte, l’Avenida Lourenço Peixinho. Gli alberi effettivamente ci sono, in doppia fila, ancora piuttosto giovani. Entriamo, subito a sinistra, nella Pastelaria Bissau. Ci appoggiamo al banco di legno chiaro col ripiano in marmo a cristalli grigi, bianchi, neri e rosa. Acquistiamo due bottigliette di acqua minerale e un succo di frutta. Chiediamo al titolare dove si può prendere l’autobus per andare alla Reserva natural, espressione che lo lascia perplesso. Gli mostriamo allora la nostra guida: “Ah, sì, S. Jacinto… È la linea per il Forte da Barra, c’è una fermata qui dietro, di fianco alla stazione, oppure lungo l’Avenida…”.
Proseguiamo, perché prima vogliamo visitare la Cattedrale. La pioggia non ci lascia l’agio di guardare in giro come vorremmo. Oltrepassiamo insegne variegate, in ripetizioni significative: la pasticceria Estação 90 che produce ovos moles – “uova molli”: in realtà, dolcetti tipici – e precede un noleggio auto, un negozio di incensi e un Compro ouro; abbigliamento; altro Compramos ouro; edificio in abbandono; abiti da sposa; nuovo abbandono; farmacia; viaggi; bazar cinese; vetrine vuote; bazar cinese; bar Wall Street English; Pizzburguer; vetrine vuote; bazar cinese; ferramenta con sopra un Compro ouro e prata; bazar cinese; Minipreço; Chicco; strumenti musicali; Best Travel; Bazar Valente di attrezzatura per la pesca. Gli edifici si fanno, in questo tratto di via, più caratteristici, anche se il loro aspetto malconcio richiederebbe una consistente ravviata.
Il negozio Frutlândia ci invoglia con le ceste di prodotti disposte in fila accanto al marciapiede, ma anche nella ricca esposizione interna su scaffali dai ripiani inclinati, tavoli, bancone e piantane. Ci prendiamo dell’uva bianca, delle pesche nettarine, delle mele e una pagnotta di broa, per soli 2,50 euro complessivi.
[1] Apprendo ora, vedendo il servizio del telegiornale su un intervento analogo realizzato in una ex fabbrica di Barreiro, che si tratta di un’opera dell’artista di strada e designer Vhils (Alexandre Manuel Dias Farto, nato a Lisbona nel 1987).
Ventiseiesima parte – Continua.
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano
Didascalie:
- Il murale di Vhils ad Aveiro
- Arrivo in treno ad Aveiro, sotto la pioggia