Seconda parte del reportage di Marco Grassano sulla Maremma. La prima potete leggerla qui.
Stamattina affrontiamo il percorso guidato A2, quello delle torri di avvistamento, lo stesso che avevamo seguito, con la scuola media di Castelnuovo Scrivia, dodici anni fa. Siamo una ventina di persone, accompagnate dalla guida Paola. Un autobus giallo ci porta fino al punto di partenza di Pratini, non accessibile ai mezzi privati. Ci addentriamo nel bosco, salendo gradualmente verso la Torre di Castel Marino. Paola ci spiega che mentre il capriolo italico qui non ha subito ibridazioni, il daino è stato introdotto, dalla tenuta presidenziale di San Rossore, una sessantina di anni fa, e il cinghiale attualmente presente è quello, grosso e assai prolifico, originario di Polonia e Ungheria, che ha soppiantato la piccola varietà autoctona. Anche il falco pescatore è sparito, da una quarantina d’anni, per opera di una caccia non controllata (gli esemplari successivamente avvistati erano solo di passaggio); ora si sta cercando di reintrodurlo con pulcini prelevati in Corsica, messi a crescere nella voliera dell’Ombrone, senza contatti con l’uomo, e poi liberati. Una prima coppia ha già nidificato sul fiume, e ne sono nati due piccolini.
Avvicinandoci alla torre diroccata osserviamo dall’alto il pascolo naturale di Piana dei Cavalleggeri, costellato di rustiche vacche maremmane allo stato brado, e la pineta granducale verso Marina di Alberese, tagliata da un canale e solcata da un sentiero (in questo momento, percorso dalla carrozza per turisti trainata da due cavalli). Questo folto di pini domestici risale al 1838, una decina di anni dopo l’avvio della bonifica, ma già Rutilio Namaziano, nel suo poema Il ritorno (De reditu suo), annota di essersi fermato lungo il tombolo (la linea di dune costiere, dal latino tumulus) e descrive un bosco ben ordinato, probabilmente una pineta.

La vegetazione nella quale ci muoviamo appare selezionata dalle attività umane (in particolare, mostra l’effetto del taglio a raso per la produzione del carbone; ogni tanto, qualche ulivo segnala una precedente, diversa destinazione dell’area), e i sentieri sono ancora quelli tracciati da taglialegna, cacciatori e carbonai. I carbonai maremmani provenivano dall’Appennino; nel bosco si possono vedere le radure circolari dove, fino a una settantina di anni fa, erano soliti allestire i loro “campi di lavoro”. Quando ritornavano alla vita civile, sporchi di fuliggine, diventavano “l’uomo nero” con cui spaventare i bambini.
Numerosi i lentischi (Pistacia lentiscus); questa anacardiacea, parente stretta del pistacchio, aveva una molteplice utilità: le sue foglie secche venivano usate per concimare, con la sua resina si produceva il mastice di Chio (gomma da masticare disinfettante usata dai Romani), dalla corteccia si ricavava il tannino per la concia delle pelli, la cenere delle foglie serviva come sapone disinfettante, spremendone i semi si otteneva un buon olio commestibile. Parecchie querce. Anche il ciclo riproduttivo del cinghiale segue l’andamento delle ghiande (più ce ne sono a disposizione, più spesso gli animali hanno l’estro). Verso sud, sul promontorio che ripara Cala di Forno, si vedono la Torre in rovina e, dietro, la stazione doganale del ‘700, ma le visite in estate non vi sono permesse, per via del rischio incendi. Sull’altura qui accanto, invece, la Torre di Collelungo (che raggiungeremo poi, scendendo in spiaggia e risalendo).

La Piana delle Caprarecce, in basso, è un ex pascolo bovino e caprino. Le scogliere sulle quali ci troviamo rappresentano l’antica linea di costa, in calcare massiccio con fenomeni di carsismo (grotte e cavità, ove si trovano alcuni dei siti archeologici più antici della Toscana, come la Grotta della Fabbrica, nella quale si producevano attrezzi, o la Grotta dello Scoglietto, in cui sono stati rinvenuti crani forati e con tracce di ricrescita del tessuto osseo che ne denotano la probabile funzione di primitivo ospedale). Scendiamo dal promontorio della torre attraverso un sentiero quasi precipite. In fondo, una radura circondata da pini domestici e cosparsa delle loro grosse pigne da pinoli. Su un tronco secco coricato, la patetica carcassa di una piccola testuggine d’acqua, Emys orbicularis, specie autoctona sempre più minacciata dalla presenza di esemplari di tartaruga americana “restituiti alla natura” da anime pie che, dopo averli orgogliosamente acquistati, si sono stufate di tenerli in casa. Ai piedi delle rupi calcaree crescono fitti mirti e piante di liquirizia, e si arrampicano viti selvatiche (discendenti di quelle introdotte dai benedettini nell’undicesimo secolo). Una larva di cicala si affaccia dal terreno, dopo esservi rimasta per tre anni. Attorno, la terra appare smossa, rivoltata dai cinghiali che la frugano in cerca di cibo. Qualche scoiattolo sugli alberi. Nel canale solo pesci e qualche rana; non si vedono nutrie (ma ci sono), mentre le lontre mancano dagli anni Settanta.
Arriviamo al tombolo. Consulto gli appunti del 1999. La pianta che “costruisce” le dune è l’Ammophila arenaria; strappandone le fronde e accumulandole, i cinghiali si costruiscono la “lestra” (cuccia) per figliare. Andando dal mare verso terra, la prima pianta che si può incontrare è il cachile, poi l’euforbia, poi l’ammofila, la camomilla, l’elicriso, il giglio di mare (o pancrazio), poi i cespugli di ginepro coccolone mescolati a quelli di rosmarino – profumatissimo! – e infine i primi alberi (la successione riportata nella guida tascabile redatta dal Parco è un po’ diversa: peplide, sporobolo, euforbia marittima, eringio marino, sparto pungente, camomilla marina, erba medica marina, giglio di mare, ononide, stecade citrina, ginepro coccolone, pino domestico). Le dune sulle quali si è già depositato uno strato di terriccio vengono definite “dune fossili”. Notiamo escrementi di cinghiale e di coniglio selvatico. Una grotta marina si apre nella parete rocciosa, sulla spiaggia. Saliamo verso la Torre di Collelungo e la raggiungiamo: appare ristrutturata di recente, ma non è accessibile. Verso sud, la falesia si fa rossastra, tipo “costa francese”. Qui sotto sono stati trovati i resti di un porticciolo per velieri, attivo fino al diciottesimo secolo. Si avverte un forte aroma di rosmarino selvatico. Un cartello illustra il vicino “Paduletto”.
(seconda parte – segue)
Marco Grassano
Didascalie:
- La pineta granducale verso Marina di Alberese
- Scorcio del percorso naturalistico A2 con la Torre di Collelungo