Marco Lindi è un professionista preciso e pignolo e non potrebbe essere altrimenti, dato che lavora nel settore degli strumenti medicali. Ma dev’essere anche una persona dotata di molta pazienza, virtù indispensabile a chi ha a che fare con registi e attori, come lui che è, appunto, attore e regista per passione. E con i giornalisti.
Ha dovuto infatti attendere oltre un anno per poter leggere questa intervista… Ci eravamo dati appuntamento per pranzo un giorno di febbraio del 2014, ai piedi del Palazzo della Regione Lombardia a Milano. Era la seconda volta che pranzavamo lì: la prima, qualche mese addietro, Marco aveva sbagliato strada, perdendosi per le strade del nuovo quartiere allora in costruzione. Questa volta invece si è presentato puntuale e conoscendoci già di persona abbiamo potuto saltare i convenevoli per ordinare subito: risotto al nero di seppia per entrambi.
Dopo dieci minuti di miei sproloqui durante i quali l’ho aggiornato su quel poco che avevo combinato nel frattempo, gli dico “ora devi parlare tu, altrimenti faccio un’intervista a me stesso”. Gli propongo di ripercorrere le tappe che più mi hanno interessato nel precedente incontro, partendo dall’aneddoto su come ha iniziato a fare l’attore. Lui lo anticipa con una premessa: “Arrivavo da anni di lavoro, lavoro, lavoro. L’impatto con la bellezza dell’arte l’ho avuto quando ho iniziato a frequentare la scuola steineriana di mia figlia”. Lì ha potuto, parole sue, “abbeverarsi alla sorgente infinita dell’arte”.
Accompagnando la moglie, ha partecipato casualmente a un laboratorio di teatro, di cui doveva fare semplicemente lo spettatore. Invece è salito sul palco e quella notte non è riuscito a dormire per l’emozione. Era sì abituato, per lavoro, a parlare in pubblico, ma in maniera codificata, mentre sul palco gli era stato chiesto d’improvvisare. S’inventò il personaggio di un maniaco del pulito e la facilità con cui ci s’immedesimò colpì lui stesso tanto quanto gli spettatori. In verità il teatro era da tanto tempo nei suoi pensieri, ma solo come sogno di un “vorrei ma…”. Quell’esperienza invece lo convinse a provarci davvero, a ritagliarsi del tempo da dedicare al teatro.
La folgorazione alla scuola steineriana risale al 2002. Poi è seguita una prima scuola di teatro, con una maestra molto brava, ma l’ambiente era troppo “stretto”. Allora è passato a una seconda scuola, diretta da Danilo Ghezzi, direttore artistico del Teatro Alfredo Chiesa di Milano. Marco riconosce di aver imparato molto da entrambi i maestri. Alla fine del primo anno con Ghezzi, nonostante le arrabbiature e la fatica, si è accorto di aver fatto un grande progresso e invece di abbandonare, ha deciso di proseguire perché, dice, “mi faceva bene prendere degli schiaffoni anche su cose che pensavo di fare bene”.
Dopo tre anni si è iscritto a un corso breve di regia alla Paolo Grassi: quindici giorni di full immersion e di delirio per coniugare lavoro e teatro, ma grazie ai quali ha acquisito un po’ di basi tecnico-pratiche, anche se è convinto che la frequentazione del palco sia la cosa più importante per un regista.
E quando da spettatore assiste allo spettacolo di un collega, a cosa pensa, cosa nota? Se uno si mette a pensare a una diversa disposizione degli altoparlanti o ad altri dettagli, mi spiega, significa che è “uscito dallo spettacolo”; in questo caso il regista non è riuscito a catturare l’attenzione dello spettatore. Comunque lui si definisce un perfezionista, anche nella scrittura di una semplice email. Così lavora sui dettagli anche più piccoli, una regola nel teatro professionale che spesso viene trascurata in quello “amatoriale”, anche solo per mancanza di tempo.
“Dalla volta precedente in cui ci siamo visti – mi anticipa – ho iniziato a scrivere: un testo comico sull’incongruenza del tempo che passa. Carino, ma a un certo punto l’ho messo da parte perché mi trovo meglio nel dramma”. E mi racconta la trama del secondo testo, un dialogo tra un cliente (a piedi!) e una prostituta. “Niente di autobiografico…”, lo provoco sorridendo; “Niente, se non il desiderio di esprimere la fedeltà coniugale, di cui non si parla mai, mentre l’infedeltà è stata affrontata in mille modi”, risponde. Poi è stato folgorato da una terza storia: una mattina ha visto nella mente tutta una scena che l’ha scioccato e ha sospeso il resto per scriverla. L’idea è stata lo spunto per lo spettacolo Philippe Latroux, l’illusionista che debutterà il 7 maggio al Teatro Alfredo Chiesa (in calce il trailer).
“Immagina un vecchio di spalle che sta guardando una locandina che parla di questo illusionista. Siamo agli inizi del Novecento”. Il vecchio racconta che un tempo molta gente andava a teatro perché non esisteva la TV e il cinema era ancora muto. “Gli spettacoli dal vivo hanno sempre fatto effetto sugli artisti, perché se le cose vanno bene, tu non sai mai fino alla fine se la gente apprezzerà. Se qualcosa va male, invece, te ne accorgi subito”. Dopo quella prima scena del vecchio inizia lo show e inizia con qualcosa che va male: il trucco dell’illusionista non funziona…
A questo punto gli riassumo in tre parole la sua carriera – attore, regista e autore – e gli chiedo come mette in rapporto tra loro questi tre ruoli e in quale si trova più a suo agio. Risponde senza esitazione che la cosa più facile è la recitazione, mentre la più difficile è sicuramente la regia perché da regista devi far comprendere ad altri le tue idee e trasmettere loro il tuo entusiasmo. Poi torna al progetto dello spettacolo Philippe Latroux, l’illusionista per raccontare che la passione per la magia risale all’infanzia, quando leggeva manuali di prestidigitazione e inscenava spettacolini per amici e parenti nel salotto di casa.
Mentre io mi mangio una fetta di torta alle pere e cioccolato, Lindi mi espone il probabile calendario dei suoi spettacoli per il 2014 e il 2015: prevedeva maggio 2015 come data di debutto per Philippe Latroux, l’illusionista e ci ha azzeccato: che magia! (o è solo precisione?). Davanti al caffè che sa di non poter rifiutare perché conosce la mia passione (e il blog Tazzine d’Italia), approfondisce un altro tema a lui caro che mi aveva colpito nel primo incontro, quello del karma.
“Quando ho iniziato a fare teatro – rievoca – ho avuto la varicella. Un cambio di pelle che corrisponde a un forte cambiamento interiore”. Seguendo il filo della continua ricerca che è nata prima come semplice curiosità, torna al punto di partenza e si sofferma sull’insegnamento di Rudolf Steiner. Marco ha studiato l’antroposofia che mette al centro l’uomo, fatto di corpo (materia) e di anima (spirito) e così è cambiato il suo rapporto con le persone e di conseguenza l’approccio al teatro.
Quello che gli interessa, da anni, è cercare di espandere la coscienza, per avere una visione del prima e del dopo (rispetto alla vita attuale) più ampia possibile. “Adesso sto bevendo questo bicchiere d’acqua qui – e proprio mentre lo dice un cameriere glielo porta via – che è di vetro e mi fa piacere perché è un materiale riciclabile. Anche solo il semplice atto di bere un bicchiere d’acqua può portare dei pensieri che aiutano a espandere la coscienza”. “Il karma è l’unica chiave di lettura che può dare un senso alla vita; ci ho provato in tanti modi ma non ne ho trovate altre”, confessa.
Fuori dal ristorante abbiamo avuto ancora qualche minuto per parlare di Shakespeare e del ruolo del regista, unico responsabile di uno spettacolo. Ma adesso è arrivato il tempo di lasciarsi catturare dall’illusione del teatro, la più sorprendente delle magie.
Saul Stucchi
Philippe Latroux, l’illusionista
Scritto, diretto ed interpretato da Marco Lindi
Con Silvia Gorla, Luca Monticelli, Anna Sala e con Danilo Ghezzi
Scenografie GTRT
Costumi Giovanna Tagliabue
Luci ed effetti audio Danilo Caravà
Direzione artistica Danilo Ghezzi
Prodotto da Gruppo Teatro Rare Tracce
Prima nazionale
7-8-9 maggio 2015, ore 21.00
Teatro Alfredo Chiesa
Via San Cristoforo 1
Milano
Info e prenotazioni:
www.philippelatroux.it